nov 9, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Vecchie e nuove dipendenze

Il momento socio-culturale che stiamo vivendo sembra essere quello in cui le correnti classificazioni, categorizzazioni e tipologie non sono in grado di reggere alla lettura del reale da parte di nuovi strumenti di analisi a cui prima non si faceva ricorso. Cosicché il maggiore spazio offerto alla ricerca permette ora di formulare nuove ipotesi a partire dagli stimoli provenienti dalle cosiddette “zone grigie”.

La distinzione socio-culturale tra generazioni “asciutte”, contrapposte a quelle “bagnate”, tra paesi legati al vino, alla birra o ai superalcolici, è ormai divenuta, da un punto di osservazione prettamente sociologico, priva di senso. Anzi, trascurando le più recenti acquisizioni antropologiche sugli scambi, sta avvenendo, forse, una sorta di grossolana inversione di ruoli, sia pur all’interno di significativi fattori di continuità, relativi alla socializzazione al bere, che resta pur sempre “socialmente indotta, socialmente controllata, socialmente rilevante”.

Quali sono le categorie adatte a rappresentare le trasformazioni  degli stili del bere, in che termini e con quale linguaggio esprimerle? L’onestà intellettuale impone prudenza e riconosce la difficoltà descrittiva del nuovo senza ricorrere a vecchie espressioni, e dunque la resistenza a liberarsi di concezioni superate, per approdare alle idonee innovazioni.

Uno dei dati più significativi emersi dagli studi attuali è il mutamente delle culture del bere, che, a seconda dei paesi può riguardare gli elementi principali del consumo, quali, per esempio, gruppi, forme di controllo, preferenze, frequenza, funzione, contesto e situazione.

La prima distinzione si basa sul tipo di bevanda che tradizionalmente è consumata in misura prevalente: vino, birra e superalcolici rispettivamente per Europa meridionale, centrale e settentrionale. In area mediterranea, e quindi nei paesi del vino, la parte preponderante delle bevande alcoliche consumate continua a essere costituita dal vino, anche se il volume di consumo è diminuito drasticamente, fin quasi a dimezzarsi, lasciando spazio a nuovi significati relativi a tale consuetudine di ingestione. I paesi della birra hanno aumentato percentualmente il consumo del vino, mentre i paesi che abitualmente si dedicavano ai superalcolici, adesso oscillano tra birra e vino.

Eppure questa che sembra una semplice instabilità di vocabolario si riflette sulle difficoltà di classificazione nelle categorie tuttora a disposizione.

 

La seconda classica distinzione divide le culture e le generazioni “bagnate” da quelle “asciutte”, in riferimento alle abitudini di consumi, quindi corrispondendo a categorizzazione più ampia di quella dettata dal solo livello. Le culture bagnate del mediterraneo infatti sono tipicamente caratterizzate da grandi quantità di consumi, frequenti e piuttosto estesi, con alta incidenza di problemi determinati da questo consumo elevato e costante, ma anche da un basso livello di intossicazioni alcoliche, come da piccole minoranze di astemi e scarsa pressione da parte di movimenti di temperanza. Le profonde differenze rispetto ai sistemi di controllo sociale sul bere sono basilari nella distinzione tra culture bagnate mediterranee e quelle asciutte dei paesi anglofoni e nordici, in cui le caratteristiche sopra esposte si situano sostanzialmente all’opposto (Room R., Mäkelä K. 2000).

Una terza classificazione sembra prestare maggiore attenzione agli usi delle bevande, in relazione a caratteristiche materiali e dei contesti di assunzione delle stesse. In alcune culture gli alcolici hanno fornito un importante apporto calorico giornaliero, entrando a pieno titolo a far parte integrante della dieta alimentare, come la mediterranea. In altri contesti, sono stati associati quasi esclusivamente all’intossicazione del fine settimana, di feste e celebrazioni varie, in quanto bene di lusso e quindi raro. Anche queste classificazioni sono state indebolite dal moderno stile di vita, dal radicale mutamento della struttura familiare, dalla concentrazione urbana.

 

Per le persone che ai problemi alimentari uniscono l’abuso di alcol  è stata coniata la definizione “drunkoressia” che affianca l’anoressia all’ubriacatura. L’abuso, a volte impiegato per indurre il vomito dopo una crisi bulimica, finirebbe col divenire l’unica fonte di calorie. Alcolismo e disturbi alimentari presentano caratteristiche comuni, perché chi tende ad abusare è naturalmente portato ad abusare di tutto e di più, e quindi ancora di altro. Gli alcolisti, come i bulimici, sono spesso anche anoressici e lo stomaco ricolmo di liquidi risulta più facilmente svuotabile.

La maggior parte dei disturbi che associano cibo e alcol riguardano adolescenti di sesso femminile, poiché le giovani donne, quanto ad abuso di alcolici, superano i loro coetanei, di cui solo un quarto dichiara di ubriacarsi almeno una volta l’anno. La drunkoressia si connota pertanto quale disturbo di genere e d’età, a partire da un disagio psicologico, riconducibile a pressioni sociali ed equivoci messaggi pubblicitari che associano il bere al successo. L’assunzione di valore di relazione sociale, invece che di consumo alimentare, con il concomitante abbandono della dieta mediterranea, avvenuto circa tre lustri addietro, e l’introduzione dell’aperitivo a determinate ore, assieme all’assaggio di antipasti estremamente grassi, ha contribuito a completare il mutamento di stile nel bere.

Laddove prima non sarebbero mai stati previsti, sembra si siano ora diffusi alcuni stili del bere giovanili, come il binge drinking, definizione di Henry Wechsler (1994) coniata per indicare il consumo, in una singola occasione, di 4, o 5, drink, rispettivamente per femmine e maschi, di difficile comparazione però, sia per quanto riguarda il significato specifico per l’ambiente anglosassone, sia per quanto riguarda le unità alcoliche (8 grammi per la Gran Bretagna, 14 per gli Stati Uniti). I cambiamenti nei diversi valori d’uso sono comunque da considerare un indicatore molto significativo di mutamento di stile e di relazione.

“I nostri anni hanno accelerato, come in altri aspetti del vivere, le diversificazioni sia sul piano tossicologico, con le droghe sintetiche e l’espansione del consumo di cocaina, sia sul versante interpretativo: sono gli anni della cultura dell’addiction; delle dipendenze patologiche; all’interno di uno stesso spettro, vengono riconosciute diverse forme di comportamento compulsivo (gioco, shopping,, internet, disturbi alimentari). – ammette Alessandro Dionigi in “Vecchie e nuove dipendenze” (Clueb, Bologna 2010) – Emerge la tendenza alla consumopatia come sfondo del vivere, come elemento non secondario della civiltà ipermoderna in cui esistiamo. Il fenomeno droga invade la popolazione globale, molti soggetti che la consumano si collocano in una quotidiana normalità e non si riconoscono in rappresentazioni e spiegazioni degli anni precedenti”.

 

Che gli alcolisti non siano tutti uguali è ormai noto da tempo e pertanto non vanno trattati allo stesso modo, bensì a seconda delle caratteristiche della loro dipendenza, come anche di quelle del loro patrimonio genetico. Non funzionando su tutti allo stesso modo i farmaci che inducono diminuzione del desiderio di alcolici, si è pensato di mettere a punto terapie personalizzate in base al dna. La soluzione proposta è quella di impiegare farmaci mirati su specifiche tipologie riconducibili a particolari varianti genetiche.

I figli di genitori alcolizzati hanno una probabilità quattro volte più elevata di sviluppare problemi d’alcolismo, anche quando venissero adottati da famiglie di astemi. Per i figli maschi questa probabilità sale ancora di più, fino a nove volte.

Alcuni dei geni incriminati  si rintracciano all’interno dello stesso gruppo etnico. Un terzo della popolazione dell’Asia orientale presenta una variante genetica che comporta una rapida conversione dell’alcol in acetaldeide, responsabile di rossore, nausea e tachicardia, il che costituisce un ottimo deterrente al bere, al contrario di quanto avviene invece con i finlandesi.

Alcuni pazienti con due peculiari varianti di un gene legato al neurotrasmettitore serotonina avrebbero ridotto il loro consumo di alcolici assumendo una molecola antinausea (ondansetron), che, bloccando i recettori serotoninergici, diminuisce il senso di ebbrezza. Nei pazienti che dimostrano di avere una variante del gene per i recettori degli oppiodi, il rischio di ricaduta verrebbe frenato dal naltrexone, che intralciando i recettori degli oppioidi, riduce il desiderio di alcolici.

La complessità, comunque, della relazione tra geni e alcol viene suggerita dalla presenza di geni che determinano la velocità di metabolizzazione da parte del fegato, quelli che influenzano la reazione cerebrale al piacere o allo stress, oppure alla depressione o all’ansia.

Sostanzialmente, da quest’ultimo punto di vista, le principali categorie di riferimento potrebbero essere riconducibili alla dicotomia de: i prevalentemente ansiosi, che indugiano nel bere per calmare la sensazione di stress che li assale quando sono in astinenza, e quelli che invece traggono dall’alcool una sorta di gratificazione con sensazione di benessere e di potenza, alla quale non riescono più a rinunciare.

Le ultime novità farmacologiche per le diverse tipologie sono oggi ritenute parte integrante delle cure psichiatriche, da sole molto spesso insufficienti.

La categoria degli alcolisti meno stressati sembra abbia un particolare assetto genetico per quanto riguarda gli oppioidi  endogeni, i cui recettori sarebbero mutati rispetto a quelli della popolazione generale. Sono questi i malati che rispondono meglio a farmaci impiegati per altre dipendenze da oppiacei, come appunto il naltrexone. Incoraggianti sono i dati riguardanti i prodotti contro il tabagismo, tipo vareniclina, e anticonvulsivi, come il topiramato. Rimane eventualmente da stabilire la durata e le modalità del trattamento, che potrebbero limitarsi ai soli periodi di crisi o costituire profilassi a vita.

Per gli alcolisti ansiosi, soprattutto a causa dello stress, per i quali l’alcol svolge già di per sé funzione auto-terapica, il settore farmacologico più promettente punterebbe maggiormente all’intervento sui meccanismi fisio-patologici dello stress e, in particolare, sui circuiti dell’ormone corticotropin-realising factor (crf). Ma, in questo caso, siamo ancora a livello del tutto sperimentale con un antidepressivo, denominato LY686017, unico a interagire con crf.

 

L’Italia si situa tra i paesi caratterizzati da una cultura del bere cosiddetta “bagnata”, ossia basata su di un prevalente consumo di vino accompagnato al cibo e in contesti di socializzazione. La riduzione del consumo sarebbe sopraggiunta con l’affermazione, negli anni 70, di una nuova organizzazione del lavoro (industrializzazione fordista) e del massiccio inurbamento, con cui sarebbe iniziato un processo di modernizzazione consumistica che verrà a completarsi con la progressiva riduzione delle professioni manuali a vantaggio di quelle impiegatizie.

Questo processo, secondo Pierre Bourdieu (1979), ha contribuito all’incremento delle rappresentazioni simboliche dei beni da acquistare, in rapporto pure alla diminuzione della loro durata d’uso, entrando così a interagire con entrambi i lati delle qualità della memoria: il ricordo e l’oblio.

“Si tratta piuttosto di elementi costitutivi delle pratiche sociali e individuali e dei rituali contemporanei attraverso cui ricordiamo e dimentichiamo, al cui interno un ruolo di particolare rilievo giocano i rituali di consumo”, scrive, citando Mary Douglas e Baron C. Isherwood (1979), Roberta Bartoletti – “La memoria (culturale) delle cose: oggetti di consumo e contronarrazioni identitarie” – (in “La forza sociale della memoria”: a cura di Doni M. e Migliorati L., Carocci, Roma 2010).

Tipicamente oggetto per dimenticare, in qualità di forma denaro, vettore principale dell’oblio, è ciò che si mercifica; consentendo un ancoraggio, oggetto per ricordare, è invece il feticcio. Diverse forme di feticci moderni che costellano le esperienze quotidiane si rapportano alla memoria del singolo, come alla cultura collettiva, mentre, nel caso della merce, l’aggancio si configura con la memoria sociale, nell’accezione di Niklas Luhmann (1991).

Gli oggetti di consumo fuoriusciti dagli angusti confini della sfera domestica e privata, hanno assunto rilevanza pubblica, nella costruzione di identità collettive, prima che individuali, e la crescente rilevanza dell’esperienza del consumo, in relazione al ricordo e all’oblio, ha gravato sul ruolo della cultura materiale costituitasi negli ultimi cinquant’anni.

Allo snodo di questi avvenimenti si situa la generazione dei nati tra il 1937 e il 1940 : sono persone che, da piccoli, hanno vissuto in prima persona l’esperienza della guerra e, da adolescenti, hanno visto crescere il settore industriale a scapito dei lavoratori impegnati in agricoltura, venendo coinvolti nelle relative ondate migratorie. Intorno ai vent’anni, hanno vissuto in pieno boom economico, con aumento del reddito e conseguente incremento del potere d’acquisto. Il nuovo modello di produzione ha richiesto una ricomposizione dei tempi da dedicare al lavoro (costretto) o loisir (libero).

La maggiore attenzione a stili di vita salutisti degli anni 80 avrebbe privilegiato prodotti di qualità, innescando meccanismi di informazione, esplorazione, acquisto ed espressione identitaria. La crescita del livello d’istruzione, la mobilità sociale, la trasformazione del’istituto familiare, con modificazioni di ruolo delle donne, le possibilità di scelta hanno colmato il resto del dinamismo scenico. La tendenza generalizzata, in relazione all’opzione di impiego, si avvia verso la convergenza con riduzione della bevanda tradizionale in favore della sovrapposizione delle novità, e in particolare della birra, in specie per le nuove generazioni.

Il cambiamento culturale più significativo del modello d’uso è quello che coinvolge il genere femminile, e le ragazze, nell’incremento di consumo degli ultimi anni. Ciò è stato maggiormente registrato a partire dagli anni sessanta nei paesi nordici, dove per prima, essendo percepita come rilevante, si è concentrata l’attenzione sull’alcohol policy, in controtendenza nei confronti della riduzione di consumo globale registrata in nazioni come l’Italia, in totale assenza di controllo formale. Per cui c’è da supporre un meccanismo di autoregolazione nello spontaneo adattamento degli stili del bere alle trasformazioni sociali e di conseguenza a quelle di socializzazione alcolica, fondamentali per la cultura mediterranea.

 

Le persone, lasciandosi influenzare dalla cultura del contesto di appartenenza,  acquisiscono atteggiamenti e abitudini sin da giovani, i quali, più degli adulti, sono contemporaneamente pronti a recepire l’introduzione e la diffusione di nuove mode. All’instaurarsi e consolidarsi delle abitudini contribuiscono il processo informale di accostamento e apprendimento dei valori attribuiti nel corso della socializzazione, che avviene secondo un’evoluzione guidata dalle relazioni.

“Per l’individuo, – scrivono Franca Beccaria, Franco Prina, Sara Rolando, Jenni Simonen, Christoffer Tigerstedt e Jukka Törrönen, nell’Introduzione a “Alcol e generazioni” (a cura di Beccaria F., Carocci, Roma 2010) – il processo di socializzazione significa apprendere competenze, abilità e abitudini necessarie per prendere parte e agire nelle diverse occasioni di consumo nell’ambito di una data cultura; per la società, socializzare i propri membri  a valori d’uso, norme e situazioni di consumo prevalenti significa riaffermare la propria continuità sociale e culturale”.

Con “The problem of generation” (in “Essays on the sociology of knowledge”, 1952), Karl Mannheim ha introdotto i concetti di “sito generazionale”, relativo agli aspetti epocali storico-geografici simili per gli anni della formazione di determinate persone, e di “condizione generazionale”, riguardante interpretazioni e orientamenti condivisi nell’organizzazione delle proprie esperienze, dai quali si può dedurre l’assunto di base che solo in giovane età possa avvenire l’interiorizzazione delle abitudini, sia pure secondo una concezione fenomenologica e pragmatica, per come descritta da Margaret Mead (1934) e Maurice Merleau-Ponty (1942), alla quale si è venuta ad aggiungere quella di habitus di Pierre Bourdieu (1979). La loro influenza culturale ci aiuta a formulare dei raggruppamenti caratterizzati dal carattere situazionale, dalle motivazioni e scopo del bere, nonché dalle norme che lo regolano.

Il set delle modalità si apprende per imitazione dall’ambiente circostante e lo si pratica abitudinariamente. Il repertorio delle tipologie può variare dal bicchiere di vino a tavola alla bevuta di fine settimana con gli amici. In occasioni specifiche, si è in grado di esprimere se stessi comunicando e decodificando motivazioni comuni, tanto da manifestare, nella loro ripetizione, come una “seconda natura” di struttura percettiva e interpretativa. Le forme di controllo formali, o normative, e informali, socio-culturali e individuali (autocontrollo), andrebbero analizzate  in base al tipo di costrizione esercitata su motivazioni, abitudini, occasioni ed eventi di consumo, nella prospettiva, secondo la definizione di Peter Hedström e Richard Swedberg (1998), di una “spiegazione attraverso meccanismi sociali”, che regolano i comportamenti delle persone essenzialmente in termini di desideri, opportunità, credenze, ecc.

Con “spiegazione attraverso meccanismi sociali”, Filippo Barbera (2004), indica il percorso che parte dall’influenza delle condizioni sociali sulla posizione individuale (meccanismo “situazionale”), l’interazione degli effetti sui singoli agenti (“formazione dell’azione”), la ricomposizione collettiva dell’insieme di gesti individuali (meccanismo “trasformazionale”). Si tratta dunque di un continuum procedurale che correla prospettive macrosociologiche delle variabili quantitative alla metodologia microsociologica, che qualitativamente riconosce senso e valuta desiderabilità.

Il cambiamento di classe ha modificato le risorse di socialità, in rapporto ad aspirazioni mutate, anche relativamente alla sostituzione di simbolismi di status. Per Michel Maffesoli (Le Temps des tribus, 1988), il lifestyle rispecchia la collettività di un’epoca, senza per questo sminuire, come rammenta  Steven Miles (2000), l’importanza dello stile di vita individuale sulla costruzione identitaria dei giovani.

La “prospettiva dinamica e processuale” focalizza l’attenzione sulle diacroniche transizioni che caratterizzano la “carriera” o la “traiettoria” in merito a singole esperienze o posizioni biografiche, anche rispetto alla constatazione che le abitudini si modificano in determinate fasi del “corso di vita”. La discontinuità, tra tarda adolescenza e terzo decennio, viene interpretata quale riflesso della maturazione verso la genitorialità, ritenuta incompatibile con gli eccessi. Il passaggio di status, connesso all’attività lavorativa, alla famiglia, o alla salute, per via dei significati attribuiti alle aspettative di ruolo, coinvolgimento, qualità delle relazioni, grado di vulnerabilità o capacità di coping, eserciterà un peso determinante, tale da far riconoscere a Gianpaolo Fabris  (1995) che le bevande hanno assunto valore di “icona sociale”, “per la capacità che manifestano di intercettare trend sociali particolarmente attivi, di metabolizzare valori particolarmente espressivi del tempo presente”.

Sebbene le scelte di consumo di un prodotto non rappresentino necessariamente delle scelte di vita, assumono però significati profondi nelle esperienze immateriali delle persone, che con quegli atti esprimono un comportamento simbolico.

 

Gli stili di consumo dei giovani si adeguano al cambiamento accogliendo le novità, senza, per questo, trascurare completamente la continuità del passato. Quest’adattamento al presente, con passiva accettazione dello status quo, ha suggerito a Ilvo Diamanti la qualifica per loro di “La generazione invisibile”.

Le differenze di classe non riflettono più le diversità di consumo, richiedendo uno schema interpretativo che tenga presente l’evoluzione stessa del consumo in sé, da espressione culturale, o identitaria, a mezzo di comunicazione o sistema semiotico, smentendo la considerazione di Lloyd A. Fallers (1954) sul “Trickle Effect”, in base alle quali le mode si trasmettono dall’alto verso il basso, dalle classi superiori alle inferiori. Sebbene persista la stratificazione sociale, i giovani sono in grado di attenuarne, almeno parzialmente, l’impatto sul piano relazionale, grazie alla ridefinizione dei ruoli, e delle proprie rappresentazioni in seno agli aggregati impostati su affinità elettive, costituite dalla condivisione di interessi, gusti, passioni e altre condizioni che accomunano. L’estrema mobilità tra gruppi di aggregazione ha reso questi ultimi altrettanto mutevoli, in quello che Michel Maffesoli ha identificato quale melting pot tribale.

Per eludere l’ansia che una scelta individuale comporterebbe, aderiscono agli stili di consumo di gruppo, identificandosi con esso, e procrastinando così la costruzione di una propria identità. Pur rimanendo ancora valida la teoria della differenziazione sociale di Pierre Bourdieu (1979), con l’accentuarsi del valore simbolico dei beni di consumo, gli autori di “Alcol e generazioni” (2010), propongono come più adeguata la definizione di style symbol.

La moltiplicazione delle scelte ha prodotto un angoscioso senso di responsabilizzazione con dirompente effetto di disorientamento da “sindrome di Stendhal”. L’ambigua scissione di quanti sono cresciuti in un tempo in cui il consumismo si è incarnato in uno stile di vita, si dimostra nella naturalezza di disincantato simbolismo percepibile in tutto il suo potere attraente, come anche contemporaneamente nella possibilità di lucido riconoscimento di limiti da sfruttare, con funzione tranquillizzante, nell’eventualità di uno sgretolamento di precedenti certezze.

Le occasioni del bere giovanile si concentrano nel tempo libero e crescono con la disponibilità di questo.

“Il tempo del consumo si mescola sempre più al tempo libero e del tempo libero assume  alcuni connotati”, osserva Roberta Sassatelli (2004). Il consumo si configura occasione ludica di divertissement ed entertainment, comunicazione, incontro nel quale intessere un’ironica e disincantata relazione di complicità. La propensione al divertimento ha concorso alla valorizzazione del consumo e alla sua desiderabilità, in virtù della disinibizione che consente maggiore libertà di vivere pienamente le proprie emozioni, con totale affrancamento da quella che Max Weber chiamava “censura del piacere”.

In un mercato saturo a guidare i consumi sono i desideri dell’homo ludens, più che i bisogni dell’homo oeconomicus. Come descritto da Joseph H. Pine e James H. Gilmore (1999), il prodotto ha perduto il suo valore, rispetto all’esperienza emotiva che è in grado di procurare in senso olistico. La storia degli ultimi anni ha assistito al progressivo allargamento dello spazio del piacere, divenuto, per Jon  Elster, una “dimensione culturalmente segnata”. L’edonismo impone una globale mobilitazione di tutti i sensi la quale riesca ad attivare quelle capacità prestazionali che coinvolgano, nell’accentuazione percettiva, non solo il sapore, ma pure il contatto con gli altri, la musica, i colori, i profumi del posto. Questo orientamento estetico ha determinato un atteggiamento di rivalutazione emotiva della fisicità corporea, veicolando desideri di forti sensazioni, passioni ed emozioni, ai limiti tra la ricerca di intensità degli stati d’animo, la visceralità e la dipendenza. Ma le regole che si è data la tribù svolgono il ruolo di contenimento dei danni, se il processo di produzione del senso di identità individuale passa attraverso quello di appartenenza piuttosto che per la trasgressione dell’eccesso non sancito dal rito collettivo. Del resto, più la situazione si presenta indistinta e mutevole, maggiormente emerge da tanta confusione la necessità di riconoscimento. E ciò in virtù di un’interiorizzazione degli altri valori d’uso del bere, dal conviviale al cerimoniale. Difatti i giovani costruiscono la propria identità generazionale ridefinendo l’identità culturale ricevuta e riadattandola alla contemporaneità.

Zygmunt Bauman ha descritto la società postmoderna come quella in cui si continua ad avvertire prepotentemente una “voglia di comunità”, non più soddisfatta però dalle tradizionali forme di aggregazione basate su relazioni stabili e rafforzate dall’identificazione in principi e valori. Questo bisogno viene deragliato verso surrogati flessibili, fittizi e a breve scadenza. Effimere “grucce” sulle quali sostenersi momentaneamente, il cui tessuto empatico controbatta le preoccupazioni con la sicurezza fornita dallo stare insieme.

In “Au-delà du marché: quand le lien import plus que le bien” (1995), Bernard Cova aveva descritto questo nuovo stile relazionale, evidenziandone il forte desiderio di intessere rapporti interpersonali con il termine linking value. Il valore del legame con l’altro supera quello del prodotto acquistato.

Con la duplice funzione di differenziazione da estranei e di assimilazione al gruppo di appartenenza, lo stile medesimo assume valenza identificante, piuttosto che omologante, per giunta in linea con la tendenza post-fordista di scartare le standardizzazioni per ricorrere a varietà di finiture, sia pure prodotte in serie (Sassatelli 2004).

Anche la dicotomia dentro o fuori casa si affianca a quella riguardante lo stile, tradizionale o trasgressivo, il controllo o la libertà d’uso e d’abuso. L’eccesso comunque non necessariamente equivale al superamento di un limite invalicabile, bensì appare come esperimento ludico di entertainment, nella ricerca di forti sensazioni, perseguita con i toni ironici con cui possono essere espressi i paradossi dell’attuale eclettismo consumistico. Nel difficile compito di costruire e comunicare la propria identità molteplice e complessa, l’abuso rientra nel desiderio di protagonismo, ancora inadeguato ai ruoli che la vita quotidiana comporta, ambiguamente commisto all’ansia da prestazione generata dalla responsabilizzazione della libertà di scelta.

La necessità di fissare determinati momenti salienti, o di transizione, in una sorta di cerimoniale di passaggio, si intravede nei cosiddetti rite of life projects.  Ulrich
Beck ha rilevato l’adattamento alle caratteristiche moderne delle vecchie strutture liturgiche delle teorie antropologiche di Arnold Van Gennep (1960). L’oggetto rappresentato dalle sostanze psicotrope svolge il ruolo di detonatore emotivo per la condivisione dei valori di gruppo, giustificando i comportamenti che ne derivano. Ciascuno poi riveste di significati personali questo contrassegno di progettualità individuale, celebrato collettivamente.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

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Articolo tratto da www.nienteansia.it

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