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giu 18, 2013 - Psicopatologia    No Comments

Cosa si nasconde dietro gli attacchi di panico?

COS’E’ L’ATTACCO DI PANICO

L’attacco di panico rientra nei disturbi d’ansia e consiste in un episodio improvviso d’intensa paura, associato a reazioni fisiche ed emotive. La persona è travolta da uno stato di terrore, che implica l’emergenza di fuggire dinnanzi alla situazione “stimolo” percepita come una catastrofe imminente.

COME SI MANIFESTA

L’attacco di panico insorge improvvisamente ed è circoscritto ad un breve periodo (10 minuti circa), caratterizzandosi per un andamento in crescendo dei sintomi, che raggiungono di un livello di massima intensità, per poi diminuire gradualmente e rientrare entro parametri normali.

SINTOMI

La sintomatologia è variabile, ma comporta sempre la presenza di sintomi fisici associati a vissuti emotivi.

- SINTOMI SOMATICI: difficoltà respiratoria, respirazione accelerata, senso di soffocamento, tachicardia, dolore/fastidio al petto, nausea, crampi/dolori addominali, sudorazione, vampate di calore, brividi, tremori, vertigini, sensazione di sbandamento o di perdere i sensi.

- VISSUTI EMOTIVI: consistono in varie forme di paura, come di perdere il controllo, d’impazzire o addirittura di morire; sensazioni di non essere parte della realtà o di essere osservatore esterno del proprio corpo.

Possono verificarsi pochi o molti di questi sintomi e, talvolta, data la loro comparsa improvvisa ed intensa, la persona teme di essere colpita da un problema fisico, come un attacco cardiaco.

Sebbene i sintomi dell’attacco di panico siano destinati a scomparire, una volta terminato l’episodio, producono conseguenze debilitanti per l’organismo, quali senso di spossatezza e percezione di logoramento delle risorse fisiche e mentali.

 

CAUSE

Gli attacchi di panico sono il risultato di molteplici componenti che, interagendo tra loro, agiscono con modalità prettamente individuali. Non esiste una causa univoca, ma l’attacco di panico si manifesta in persone in cui sono presenti fattori predisponenti associati ad altri di sovraccarico psicologico.

 

I FATTORI PREDISPONENTI sono legati principalmente a:

  • fattori costituzionali: temperamento predisposto all’ansia e con soglie più basse di reattività allo stress;
  • appartenenza al sesso femminilenelle donne il problema degli attacchi di panico è più frequente rispetto agli uomini;
  • eventi risalenti all’infanzia:  aver sperimentato da bambini uno stile di attaccamento insicuro verso le figure parentali, può promuovere vissuti di insicurezza affettiva associata ad un pressante bisogno di sostegno e rassicurazione;
  • personalità vulnerabili ai distacchi affettivi, reali o immaginari, o ipersensibili alle costrizioni verso situazioni di vita percepite come vincolanti;
  • stile educativo improntato sull’apprendimento dell’ansia: la presenza di genitori apprensivi, può aver trasmesso una visione del mondo incentrata su minacce e pericoli e, di conseguenza, l’apprendimento di comportamenti di difesa e protezione.

 

Tra i FATTORI di SOVRACCARICO rientrano:

  • situazioni di elevato stress, come un lutto, una grave malattia, un importante cambiamento di vita,
  • aver subito o assistito ad un evento traumatico,
  • tensioni prolungate in ambito  lavorativo o familiare,
  • eventi di perdita affettiva o di distacco da figure importanti,
  • esperienze del contesto di vita attuale, come forme di insoddisfazione, insicurezza, delusione, oppressione.

Pertanto, alla base degli attacchi di panico sussiste una “vulnerabilità individuale” su cui si sovrappongono la storia personale, gli schemi di pensiero, il modo di porsi nei confronti della vita, che ciascuno assimila  nel corso della propria esistenza.

Eventi dolorosi o stressanti sovraccaricano lo stato psicofisico, agendo sulla tendenza manifesta o latente, a reagire in modo apprensivo. Ne consegue un innalzamento della pressione emotiva, lungo un’escalation d’ansia, fino a quando la persona non riesce più a contenerla e precipita nell’attacco di panico.

Gli eventi stressanti non sono, quindi, la causa intrinseca del panico, bensì fungono da fattori scatenantie, generalmente, il primo attacco si manifesta improvvisamente ed apparentemente senza alcun legame con i fattori precipitanti.

 

QUALI CONSEGUENZE COMPORTA L’ ATTACCO DI PANICO?

Quando la persona ha subito un attacco di panico, la preoccupazione preminente è l’insorgenza di nuovi episodi, da cui può svilupparsi un’insidiosa paura che conduce la persona a modificare proprio stile di vita, cercando in questo modo di proteggersi dalla sofferenza.

Le conseguenze maggiormente negative non consistono negli episodi di panico in sé, sebbene siano esperienze spaventose, bensì nei meccanismi di protezione attivati dalla mente per difendersi da un loro riverificarsi: ansia anticipatoria ed evitamento.

ü  L’ansia anticipatoria consiste nella “paura della paura”. L’intensa paura di avere un nuovo attacco di panico induce ad un continuo monitoraggio degli stimoli presenti nei contesti considerati a rischio ed a esasperare l’attenzione verso le proprie sensazioni fisiche. Lamaggiore percezione dei sintomi fisici, fornisce alla mente la conferma della presenza di un pericolo e, la mente,  a sua volta,  sollecita il corpo verso le reazioni tipiche del panico.

ü  L’evitamento è una strategia per cui la persona tende ad “evitare” le situazioni temute per il riverificarsi delle crisi, o affrontarle solo se accompagnata da qualcuno di cui si fida.  L’evitamento permette di moderare l’ansia nel breve periodo, ma alimenta il problema, poiché non smentisce la paura delle situazioni temute e l’incapacità ad affrontarle. Inoltre, tende ad estendersi ad un numero sempre maggiore di contesti fino ad investire anche attività abitudinarie.

Ansia anticipatoria ed evitamento sono strategie protettive che si alimentano a vicenda e sostengono il problema, ponendo limiti sempre più ristretti alla vita di una persona. Le conseguenze comportano  la perdita della propria indipendenza e della possibilità di scelta, la rinuncia a cogliere occasioni importanti, il deterioramento della qualità della vita familiare,  lavorativa e sociale.

È abbastanza frequente che gli attacchi di panico, se non trattati tempestivamente, peggiorino in frequenza ed intensità. Quando le crisi si verificano ripetutamente, subentra la condizione di “disturbo di panico”. Inoltre possono verificarsi:

  • sviluppo di fobie specifiche, come di guidare, di andare al supermercato, di uscire di casa ecc.
  • isolamento sociale,  dovuto alla chiusura in se stessi e all’evitamento;
  • stati depressivi, di tipo “reattivo”, quale conseguenza della perdita della propria autonomia e del senso d’impotenza nei confronti del problema;
  • abuso di farmaci, sopratutto ansiolitici, che permettono di “tamponare” momentaneamente il disagio, ma possono creare forme di dipendenza psicologica.

PERCHÉ CHIEDERE AIUTO AD UNO SPECIALISTA ?

Gli attacchi di panico rappresentano segnali d’allarme che è opportuno ascoltare, poiché comunicano una sofferenza interiore, repressa e non riconosciuta, che si esprime attraverso il corpo.

Consultare uno specialista rappresenta un momento per prendersi cura di se stessi sotto un duplice aspetto: superare le crisi di panico ed attribuire un significato al disagio.

La persona può ricevere, non solo un supporto concreto per spezzare il circolo vizioso del panico, ma anche un’opportunità per affrontare le proprie paure ed esplorare parti importanti di sé di cui non ha consapevolezza, in modo da ridefinire le proprie esperienze ed i modelli di costruzione delle relazioni.

 

 tratto da www.nienetansia,it

dic 5, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Il Disturbo Ossessivo- Compulsivo

 

Che cos’è il disturbo Ossessivo-Compulsivo

Il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità è un disturbo di personalità caratterizzato da: preoccupazione per l’ordine e per le regole, perfezionismo, difficoltà a portare a termine i propri compiti, riluttanza a delegare ed a cooperare, testardaggine, rigidità su questioni di etica e di moralità, difficoltà a manifestare le proprie emozioni, bisogno di controllo nel lavoro e nelle relazioni interpersonali. Tali aspetti sono riscontrabili in un gran numero di persone per le quali, tuttavia, non è possibile affermare la presenza del disturbo, in quanto essi possono rivelarsi particolarmente utili e funzionali in numerose aree della vita; solo quando si verifica che tali aspetti interferiscono con la capacità di lavorare e di sviluppare relazioni intime, allora è opportuno diagnosticare la presenza di un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. 

Frequentemente i pazienti giungono all’osservazione di un terapeuta manifestando specifiche difficoltà e peculiari sintomi quali, ad esempio: stati d’ansia, depressione o disturbi dell’adattamento. Tipicamente questi soggetti presentano anche problemi di natura familiare, poiché i familiari (es. il coniuge, figli) si lamentano spesso del forte disagio che provano a causa del perfezionismo e dell’inflessibilità alle regole delle persone con questo disturbo. 
Questi pazienti possono soffrire anche di disturbo ossessivo-compulsivo (vedi oltre) anche se le due entità sono distinte. La personalità ossessivo-compulsiva è, inoltre, tra quelle più frequenti nei disturbi alimentari, in particolare nell’anoressia
Tale patologia colpisce circa il 3-10% della popolazione, più frequentemente di sesso maschile. 
L’esordio avviene in adolescenza o nella prima età adulta.

 

Come si manifesta

I pazienti che presentano un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, presentano  comportamenti coerenti con le seguenti caratteristiche: ferma applicazione delle regolee dei principi in cui credono, adesione alle convenzioni sociali, scrupolosità ecoscienziosità in materia di moralità e di etica; rigida organizzazione della vita quotidiana; dedizione eccessiva al lavoro, occupano gran parte del tempo in attività produttive, al punto da escludere i momenti di svago e le amicizie; perfezionismo, che interferisce con la capacità di prendere decisioni e di portare a termine le attività programmate; elaborazione di schemi, liste, programmi e gerarchie relativi allo svolgimento di un compito; accumulo di oggetti consumati o di nessun valore; avarizia e mancanza di generosità, in quanto considerano il denaro come qualcosa da accumulare in vista di catastrofi future; comportamenti interpersonali formali, educati e corretti; comportamento giudicante, critico, controllante e punitivo nei confronti di coloro con cui entrano in relazione; comportamento 
compiacente e fintamente ossequioso nei confronti di figure che percepiscono come autorevoli; riluttanza a delegare lo svolgimento dei compiti e scarsa collaborazione nei gruppi di lavoro e,  infine, insistenza nel pretendere che i subordinati aderiscano ai ruoli ed ai metodi che essi stabiliscono.
Dal punto di vista emotivo, invece, presentano una notevole difficoltà ad esprimere i propri stati d’animo ed a manifestare emozioni di calore e di premura verso gli altri; nello stesso tempo, essi mostrano una fondamentale tendenza a trattenere i propri sentimenti aggressivi, nonché qualunque indicazione sui propri interessi personali, dedicando tutti i loro sforzi per andare incontro ai desideri altrui. 
Ad ogni modo, le emozioni da loro maggiormente sperimentate sono: l’ansia relativa all’eventualità che si verifichino catastrofi future; la paura di essere disapprovati e giudicati negativamente; la rabbia e l’ostilità verso gli altri, legate all’impossibilità di esprimere le proprie emozioni ed i propri pensieri.
Appaiono, inoltre, profondamente rigidi e testardi, al punto da rimanere inflessibilmente ancorati alle proprie convinzioni, riluttanti a considerare il punto di vista altrui e ad accettare idee diverse dalle proprie.
I pensieri tipici che attraversano la mente di questi pazienti sono: “Ci sono comportamenti, decisioni ed emozioni giuste e sbagliate”; “Sbagliare significa aver fallito, essere meritevoli di critica”; “Fallire è intollerabile”; “La gente dovrebbe fare meglio, mettercela tutta”; “So qual é la cosa migliore da fare”; “I dettagli sono essenziali”; “Devo controllare perfettamente il mio ambiente, così come me stesso; la perdita di controllo è intollerabile e pericolosa”; “Senza le mie regole crollerò”.

 

Come capire se si soffre di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità

I “sintomi” in base ai quali è possibile sospettare di avere un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità sono:

  • ansia;
  • tendenza all’ordine e all’organizzazione attraverso il ricorso a liste, schemi e programmi;
  • attenzione ai dettagli;
  • perfezionismo;
  • senso di colpa quando la persona crede di non avere soddisfatto i propri standard lavorativi o etici, quando crede di essersi comportata in modo irresponsabile o pensa di aver sbagliato o causato danno ad altre persone;
  • difficoltà a portare a termine i compiti o a prendere decisioni;
  • passività;
  • controllo;
  • testardaggine;
  • rigidità;
  • dedizione al lavoro ed alla produttività;
  • coscienziosità, scrupolosità ed inflessibilità in tema di moralità e di etica;
  • incapacità a gettare oggetti;
  • riluttanza a delegare ed a collaborare;
  • avarizia;
  • difficoltà ad esprimere emozioni e stati d’animo.

Dal momento che è possibile riscontrare la presenza di tali caratteristiche anche in altri disturbi mentali, è opportuno chiarire alcune distinzioni tra il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità ed altre condizioni che possono sembrare apparentemente simili.
Il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità si distingue dal disturbo ossessivo-compulsivo prevalentemente per l’assenza di reali ossessioni e compulsioni; nello stesso tempo, esso se ne differenzia per il fatto che, chi soffre di DOC, tormentato da pensieri ricorrenti dal contenuto spiacevole e spinto a mettere in atto comportamenti ritualistici, riconosce come problematiche tali manifestazioni e desidera liberarsene; chi soffre di disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, invece, raramente prova disagio a causa delle proprie caratteristiche di personalità e, piuttosto, le considera come altamente adattive.
Il DOCP, inoltre, può essere confuso con il disturbo narcisistico di personalità poiché hanno in comune una tendenza al perfezionismo; ciò nonostante, mentre i pazienti con disturbo narcisistico di personalità sono inclini a credere di aver raggiunto standard perfezionistici, i pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità rimangono solitamente autocritici ed insoddisfatti dei risultati raggiunti. 
Può, inoltre, essere accomunato al disturbo narcisistico di personalità e al disturbo antisociale di personalità dalla mancanza di generosità verso gli altri; in quest’ultimi due disturbi di personalità, tuttavia, è presente una fondamentale indulgenza verso se stessi, mentre chi presenta un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità ha una modalità di spesa che risulta improntata all’avarizia sia per sé che per gli altri.
Il DOCP, infine, va distinto sia da un quadro di sintomi che può insorgere in seguito agli effetti di una condizione medica generale sul Sistema Nervoso Centrale, sia da sintomi che possono svilupparsi per l’uso cronico di sostanze.

 

Cause

Difetti ereditari o congeniti possono svolgere un ruolo rilevante nella strutturazione del disturbo ossessivo-compulsivo di personalità; allo stesso modo, un temperamento ansiosopuò notevolmente incidere su tale sindrome.
Un peso importante nell’insorgenza del disturbo può essere assunto, inoltre, da alcunecaratteristiche presenti nei genitori di questi pazienti; tra esse le più rilevanti sembrano essere: poca spontaneità ed espressività emotiva dei genitori; eccessiva indulgenza, durante i primi anni di vita del figlio ed elevati standard morali, richieste irrealistiche di maturità e responsabilità negli anni successivi; inibizione dell’espressione delle emozioni ed il contatto con esse; ipercontrollo ed eccessive richieste di vivere  secondo le aspettative dei genitori; uso di punizioni quando il bambino fuoriesce dagli standard prefissati; desiderio di rendere il figlio autonomo ed attivo, unitamente ad uno scarso sostegno nell’esplorazione del mondo esterno.

 

Conseguenze

I pazienti affetti da disturbo ossessivo-compulsivo di personalità presentano una rilevante compromissione della vita lavorativa, relazionale ed affettiva.
Da un punto di vista lavorativo, la tendenza al perfezionismo ed all’organizzazione dettagliata delle attività da svolgere interferisce notevolmente con la capacità di portare a termine i compiti programmati e di prendere decisioni. Nello stesso tempo, la riluttanza a delegare ad altri lo svolgimento dei compiti, unitamente all’aspettativa che gli altri aderiscano rigidamente alle proprie regole e metodi, rende la collaborazione e la cooperazione con tali pazienti estremamente complessa. 
Da un punto di vista relazionale, l’eccessiva dedizione al lavoro ed alla produttività, porta i pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità ad escludere le attività di svago e le amicizie; le uniche relazioni sociali che coltivano sono quelle che hanno all’interno di attività che richiedono un’attenta organizzazione e nelle quali viene posta grande enfasi sulla perfetta esecuzione. Allo stesso modo, una rigida adesione alla convenzioni sociali ed un’estrema coscienziosità su questioni di moralità e di etica, porta tali pazienti a stabilire relazioni nelle quali risultano estremamente inflessibili e critici, sia nei confronti di se stessi che degli altri, rispetto al perseguimento dei principi in cui fermamente credono. Infine, la difficoltà ad esprimere emozioni di calore e di premura verso gli altri, unitamente alla mancanza di generosità, porta tali pazienti a strutturare relazioni interpersonali il più delle volte formali e superficiali.
Dal punto di vista affettivo, la difficoltà dei pazienti che presentano un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità ad accedere alle proprie emozioni e stati d’animo, interferisce profondamente con la formazione di relazioni intime e calde, determinando piuttosto atteggiamenti di controllo interpersonale.

 

Differenti tipi di trattamento

Per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo di personalità si ha a disposizione una molteplicità e varietà di orientamenti, ciascuno focalizzato su aspetti specifici del problema e su modalità peculiari di intervento. 
Di seguito sono riportati i principali tipi di psicoterapia che trattano il DOCP: 
Gli approcci psicodinamici si focalizzano prevalentemente sull’interpretazione di elementi repressi e rimossi, da cui ritengono derivino i sintomi manifestati dal paziente. Utilizzano la relazionale terapeutica come punto di partenza per esplorare relazioni precedenti che potrebbero aver determinato lo sviluppo dei sintomi. Vengono indagati i traumi precoci. Vengono esplorate le fantasie del paziente circa un approccio alla vita rilassato e flessibile, dopo aver sollecitato in lui il riconoscimento degli aspetti che bloccano la sua creatività e che risultano inefficaci nel fronteggiamento delle situazioni di vita. Quando le paure ed i sentimenti di disagio diventano consci, allora possono essere affrontati in maniera produttiva. Il lavoro sui sogni e la libera associazione viene utilizzato per superare le difese del paziente nei confronti di sentimenti e di paure profondamente radicati. 
Secondo l’approccio interpersonale, la maggior parte dei comportamenti dei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità vengono assunti come reazione ad un genitore freddo ed esigente che il bambino deve rabbonire per evitare punizioni verbali o fisiche. Il primo passo verso la guarigione emotiva consiste, dunque, nel rendere il paziente capace di riconoscere apertamente il carattere di queste prime esperienze di apprendimento, così da sviluppare una dose di tenerezza e di compassione per il bambino che lui o lei era una volta. 
La terapia di coppia risulta assai utile nel trattamento di problematiche sessuali che frequentemente si riscontrano nei pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità. Nel contesto sessuale, infatti, molte delle problematiche di tali pazienti possono essere facilmente identificate: le lotte per il potere si manifestano nell’incapacità di pazienti donne a rinunciare al controllo sessuale (spesso con conseguente anorgasmia); nello stesso tempo, i pazienti uomini probabilmente interpreteranno qualsiasi mancanza di sottomissione alle loro avances sessuali come una conquista del controllo, se non un rifiuto, da parte della loro partner. Il terapeuta può aiutare a mediare la comunicazione, evidenziando che la riluttanza sessuale (così come di altro tipo) può essere una conseguenza di differenze nel desiderio, e non necessariamente di una volontà di controllare o dominare. La terapia sessuale potrebbe aiutare ad interagire in modo meno controllato e più aperto attraverso la pratica di “esercizi” sessuali. Prescritte dal terapeuta, tali procedure richiedono che il paziente segua le istruzioni (cosa in cui il compulsivo è abile) e quindi, paradossalmente, che si sottometta al partner (come il dottore ha ordinato!).
La terapia familiare si pone l’obiettivo di riunire i membri della famiglia, appianando i disaccordi e permettendo l’espressione di sentimenti a lungo repressi. Per i pazienti con disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, tuttavia, può risultare assai problematico parlare delle proprie difficoltà relazionali, a causa della loro tendenza a dominare gli altri membri della famiglia; questo da una parte può impedire una risoluzione soddisfacente di questioni di vecchia data, dall’altra può far sì che i problemi di tipo relazionale possano addirittura aggravarsi. 
Una forma differente di terapia familiare, invece, incoraggia un contatto giocoso tra il paziente, il suo coniuge e gli eventuali figli, enfatizzando ricompense inerenti attività non orientate al dovere e sollecitando atteggiamenti spontanei.
La terapia di gruppo può risultare complessa con i pazienti che presentano un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, in quanto da una parte essi rifiutano di interagire in maniera espansiva con gli altri membri del gruppo e di condividere spontaneamente pensieri e sentimenti, dall’altra tendono a dominare ed a controllare le discussioni. D’altro canto, la terapia di gruppo potrebbe attenuare con successo l’impatto problematico di tali pazienti, consentendo loro di esplorare i problemi presentati in un contesto di confronto e di arricchimento, piuttosto che semplicemente parlarne. 
L’intervento farmacologico con i pazienti che soffrono di un disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, se necessario, include generalmente l’uso di farmaci ansioliticied antidepressivi, ma preferibilmente integrati con una psicoterapia. Il vantaggio della somministrazione di farmaci sta nel fatto che, alleviando l’ansia e la depressione che contribuiscono alla persistenza dei sintomi, i pazienti si mostrano più collaborativi e cooperativi, consentendo al terapeuta di intaccare la loro rigida struttura di personalità.

Il trattamento cognitivo-comportamentale

Nell’ambito della terapia cognitivo-comportamentale del disturbo ossessivo-compulsivo di personalità, gli obiettivi del trattamento vengono concordati in collaborazione tra paziente e terapeuta; di conseguenza, essi risultano diversi da paziente a paziente. In genere, la terapia si pone l’obiettivo ultimo di alleviare le sofferenze del paziente, raggiungendo quei cambiamenti necessari a consentirgli di vivere una vita più serena ed appagante.
Nello specifico, i fondamentali obiettivi che ci si prefigge di raggiungere con il paziente sono:

  • favorire la consapevolezza e l’accettazione dei propri stati d’animo e delle proprie emozioni;
  • ridurre gli stati negativi di abbattimento, irritabilità, ansia, ecc.;
  • diminuire la tendenza ad evitare situazioni che sono al di fuori della routine quotidiana;
  • apprendere strategie efficaci per la gestione delle situazioni problematiche;
  • favorire la flessibilità su questioni di moralità ed etica;
  • abbassare standard di prestazione eccessivamente elevati;
  • aumentare la capacità di rilassarsi in attività di svago;
  • sviluppare l’abilità di instaurare relazioni più rilassate, informali, ed intime;
  • abbandonare condotte compiacenti da una parte, dominanti dall’altra.

Il metodo utilizzato per il raggiungimento di tali obiettivi comprende:

  • l’individuazione, la messa in discussione e la successiva modificazione delle convinzioni di base circa se stessi ed il mondo;
  • l’identificazione e l’interruzione dei circoli viziosi che si instaurano tra emozioni, pensieri e comportamenti;
  • l’uso della relazione terapeutica come contesto nel quale essere se stessi e sperimentare un’accettazione incondizionata da parte del terapeuta, che incoraggia e favorisce l’accettazione di sé;
  • l’uso di tecniche di rilassamento;
  • la graduale esposizione alle situazioni temute.

E’ in corso di sviluppo il modello di terapia metacognitivo-interpersonale per il disturbo ossessivo-compulsivo di personalità.

Articolo tratto da www.terzocentro.it

nov 11, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Come aiutare una persona depressa

Nessuno mi ama”, “Mi sento solo”, “Nelle relazioni con gli altri sono sempre io quella che da e mai quella che riceve”, queste considerazioni negative sulle proprie relazioni interpersonali sono tipiche della depressione.
La depressione, infatti, è un disagio psicologico che interferisce significativamente sul funzionamento sociale della persona depressa: chi è depresso ha spesso il vissuto che a nessuna delle persone che lo circondano importi qualcosa di lui, e che nessuno possa capirlo e aiutarlo.
Anche quando la realtà si rivela ben diversa e il depresso è circondato da amici e familiari affettuosi e ben disposti nei suoi confronti, si sente ugualmente solo e non amato.
D’altra parte, poche cose possono incidere negativamente in un rapporto come una prolungata depressione.
Chi è depresso desidera ardentemente l’affetto degli altri ma stesso tempo tende a respingerli, chiudendosi in se stesso oppure svalutando quello che gli altri fanno per lui.
Spesso il partner e i familiari della persona depressa hanno la sensazione che più fanno meno il loro aiuto venga apprezzato: anzi il depresso, lungi dall’essere grato per le premure di cui è oggetto, sprofonda sempre di più nel suo stato depressivo.
In altri casi il depresso può irritarsi verso la persona che cerca di aiutarlo sentendo che l’affetto che gli viene offerto è troppo poco, troppo tardi e comunque non basta per salvarlo dall’inferno che sta vivendo.
E’ per questo motivo che le persone che stanno accanto ad un depresso, sopratutto se si tratta di una prolungata depressione, possono ad un certo punto cominciare a provare nei suoi confronti dei forti sentimenti negativi come rabbia, fastidio, impotenza e senso di colpa.
Questi sentimenti vanno accettati, sapendo che sono assolutamente normali e sono la prova dell’affetto che ci lega alla persona depressa.
Se invece si rifiutano questi sentimenti perchè inaccettabili, si rischia di “agirli” diventando indifferenti e insensibili verso la persona che sta male.

 

Perché stare vicino ad una persona depressa è così difficile?
La depressione influenza negativamente tutte le relazioni interpersonali, tuttavia più la relazione è intima più diventa difficile e doloroso relazionarsi ad una persona depressa: ad un amico o ad un collega possiamo “perdonare” facilmente una depressione, ma se a stare male è il partner, o peggio ancora un genitore, non è facile essere obiettivi.

Infatti, più siamo coinvolti emotivamente, più lo stato depressivo del nostro caro ha il potere di spaventarci e di ferirci profondamente.
Nel prossimo paragrafo descriverò brevemente alcune dinamiche psicologiche che possono scattare in una relazione con una persona depressa.

Quali sentimenti si provano in una relazione con una persona depressa?

Hai la sensazione di non riconoscerlo più.
Hai la sensazione di trovarti davanti ad un perfetto estraneo.
Lui o lei sembrano diventati un’altra persona: una persona negativa, apatica, indifferente a tutto e in alcuni casi, irritabile e sempre di cattivo umore.
Ovviamente questo cambiamento ti disorienta e non ti piace, continui a chiederti che fine ha fatto il tuo caro e se l’individuo distruttivo e spento che ha preso il posto della persona a che conoscevi e amavi, se ne andrà un bel giorno.
Vorrei rassicurarti su questo punto: la depressione è un disturbo psicologico perfettamente curabile e guaribile.
Il cambiamento di personalità del tuo caro è solo temporaneo: non appena avrà superato l’episodio depressivo, tornerà come prima o anche meglio (molte persone escono dalla depressione rafforzate e più mature).

Dispiacere e senso di colpa.
Nel vedere una persona a cui vogliamo bene andare alla deriva proviamo un profondo senso di pena e di dispiacere: soffriamo nel vederli soffrire.
Se siamo molto legati alla persona depressa, specialmente se si tratta di un rapporto genitore- figlio, ci possono essere dei sensi di colpa.
Noi tutti tendiamo a sentirci responsabili del benessere delle persone che amiamo e, di conseguenza, possiamo sentirci parzialmente responsabili della loro infelicità.
Questa convinzione si traduce nella sensazione di non fare abbastanza per aiutare e rendere felice la persona che sta male.
Purtroppo non è in nostro potere ridare alla persona che sta soffrendo la gioia di vivere e la fiducia nella vita, soprattutto se il depresso è un genitore.
La depressione è un disagio che dipende da un interazione di cause psicologiche, biologiche e sociali e da eventi scatenanti ( un lutto, la menopausa, un licenziamento, condizioni di vita sfavorevoli, ecc.).
Detto in altri termini: persona depressa sta male per una serie di motivi che hanno poco a che fare con noi e molto a che fare con il suo assetto psicologico e biologico.
Quello che noi possiamo fare è stare vicini alla persona che soffre, ma senza attribuirci la responsabilità del suo malessere (a meno che il depresso sia stato gravemente danneggiato da un nostro comportamento).

Si prova la sensazione di sentirsi respinti e rifiutati
Spesso il depresso ferisce i sentimenti delle persone che gli stanno accanto senza nemmeno accorgersene.
La depressione è caratterizzata dalla diminuzione della capacità di provare amore e gioia: chi è depresso in modo grave non sente più niente verso le persone che un tempo gli erano care ma l’amore viene sostituito da una profonda indifferenza verso tutto e tutti.
La depressione comporta, inoltre, un ripiegamento su se stessi e i propri problemi.
Proprio per questo, essere il figlio o il partner di una persona depressa è dolorosissimo e può favorire la sensazione di scontrarsi contro un muro di gelida indifferenza.
Se il depresso è uomo può manifestare la sua depressione con cattivo umore e irritabilità e può farci capire che la nostra presenza, lungi dall’essergli d’aiuto, gli da solo fastidio.
Di conseguenza, noi possiamo sentirci respinti ingiustamente , non amati ed esclusi dalla sua vita.
Un altro tipo di depresso appartiene al genere “drogato d’amore”: ci sommerge con i suoi problemi senza il minimo riguardo per le nostre esigenze e ci chiede in continuazione attenzione, appoggio e consigli salvo poi svalutare sistematicamente tutto quello che facciamo per lui/lei.
Prima di rimanere sconvolto dall’egoismo della persona depressa, bisogna ricordare che si tratta di una persona in una condizione di sofferenza psicologica inimaginabile per chi non ha mai sofferto di disturbi dell’umore.
E purtroppo il dolore rende egoisti.
Prova a pensare a come ti senti quando stai molto male fisicamente, per esempio hai il mal di denti o una colica.
Probabilmente, quando hai un terribile mal di denti, stai troppo male per preoccuparti del benessere delle persone che ti stanno attorno.
Lo stesso discorso vale per la depressione e qui bisogna ricordare che le malattie dell’anima comportano una sofferenza di tipo diverso ma non inferiore a quella di una malattia fisica.

Rabbia
Hai la sensazione che il tuo caro stia facendo una tragedia di una piccolezza e ti fa rabbia che non sappia reagire.
Tu hai la sensazione che si pianga addossa e che faccia poco o niente per star meglio.
Lui/lei è diventato una persona completamente diversa, una persona che non ti piace e tu puoi sentirti tradito o imbrogliato.
Non sentirti in colpa per la rabbia che provi: è un sentimento perfettamente naturale che dimostra quanto tu sia emotivamente legato alla persona depressa.
Se a essere depresso fosse una persona che tu conosci solo di vista, per esempio una persona che vedi tutti i giorni sull’autobus, probabilmente affronteresti la situazione in modo più distaccato. Bisogna capire che la persona depressa non può uscire dalla sua condizione grazie alla forza di volontà: se la persona depressa avesse forza di volontà e potesse prendere delle iniziative, allora non sarebbe depressa!

La riluttanza a farsi curare è un altro aspetto della depressione. Il depresso ha la sensazione di essere un caso senza speranza, che le cure non servano a nulla e che il suo futuro sarà senza prospettive e senza gioia. Questi sentimenti di pessimismo, di impotenza, di sfiducia nella vita e nelle persone sono aspetti centrali della depressione. Inoltre il rifiuto delle cure, può nascondere un inconscio bisogno di punirsi a causa di forti sensi di colpa.

Sensazione di impotenza.
Di fronte al negativismo della persona depressa, puoi sentirti contagiato dalla sua angoscia. Se nel tuo carattere ci sono delle tendenze depressive, queste possono essere risvegliate dalla frustrante relazione con la persona depressa. E’ anche comune la sensazione di non saper cosa fare, come aiutare una persona che amiamo e che vediamo chiusa in un bozzolo di sofferenza e disperazione.

Che cosa fare e che cosa non fare con una persona depressa.

  1. Non sdrammatizzare.
    Evita le rassicurazioni facili del tipo: “vedrai che ogni cosa andrà per il meglio”, evita anche di minimizzare o di sdrammatizzare. Anche se le intenzioni sono buone, il depresso si sentirà non capito e si chiuderà ancora di più in se stesso.
  2. Evita le prediche.
    Meglio evitare anche le esortazioni all’ottimismo, o il classico consiglio di “tirarsi su”. Questi atteggiamenti, non sono solo controproducenti perché contribuiscono a colpevolizzare una persona che si colpevolizza già abbastanza di suo, ma sono anche perfettamente inutili. Dire ad un depresso di “tirarsi su” è come dire ad una persona con una gamba rotta di alzarsi e di camminare. Non si ricorderà mai abbastanza che la depressione è disagio psicologico che annulla la capacità di volere e di prendere delle iniziative.
  3. Cerca di essere empatico.
    Un atteggiamento di ascolto, rispetto ed empatia è la soluzione che funziona meglio. Solo quando il depresso si sente ascoltato e capito, può cominciare a vedere la situazione in modo più obiettivo.
  4. Dai informazioni e appoggio.
    Le prediche e i consigli servono a poco, meglio invece informarsi su centri, terapie e specialisti per la depressione. Dal momento che la persona depressa è incapace di attivarsi da sola, noi possiamo giocare un ruolo importante nel suo processo di guarigione. Questo può voler dire dare un aiuto concreto: per esempio, telefonare e accompagnare il depresso alla visita…
  5. Impara a dare dei limiti.
    Stare vicini ad una persona depressa può essere difficile. Alcuni depressi chiedono costantemente amore e attenzioni: ti trattengono ore al telefono, telefonano a tutte le ore del giorno e della notte, pretendono che tu siate sempre a disposizione. Nei casi più gravi, alcune persone depresse possono utilizzare, inconsciamente, la carta del ricatto emotivo: ti fanno capire che soltanto tu puoi salvarli dal suicidio e , che basta un tuo gesto sbagliato per peggiorare le loro condizioni psicologiche e far loro commettere un atto irreparabile. E’ importante che tu non cada in questa trappola. Impara a porre alla persona depressa dei limiti, in questo modo non solo tutelerai il tuo benessere psicologico, ma anche aiuterai il depresso a superare la sua condizione. Di solito, una persona in uno stato depressivo tende ad affidare agli altri la responsabilità della sua vita e della sua felicità. Il messaggio che tu dovete trasmettere alla persona che sta male è che tu le vuoi bene e sei sinceramente interessato al suo benessere, ma è lui che deve fare il possibile per stare bene.
  6. Proponi al depresso delle attività piacevoli e divertenti.
    Al 99% un depresso non è di compagnia, o tace, perso in tetri pensieri o ti affligge con interminabili monologhi sui suoi problemi. Insomma, la conversazione del depresso è piuttosto ripetitiva e noiosa. Per strappare la persona depressa alle sue rimuginazioni e allo, stesso tempo, salvare la tua salute mentale, organizza attività ricreative e divertenti. Vai con il depresso a far shopping, a teatro, al cinema, in discoteca, in palestra, a fare una passeggiata, ecc… Anche se non puoi aspettarti che il depresso partecipi con entusiasmo, il solo fatto di fare qualcosa di diverso dalla solita routine contribuirà a migliorare il suo umore.
  7. Trovati delle valvole di sfogo.
    Star vicini ad una persona che sta male è molto, molto difficile. Soprattutto se c’è un legame emotivo molto forte, potresti sentirvi travolti dalla sua disperazione e dalla sua sfiducia nella vita. Se vuoi veramente aiutare l’altra persona, devi tutelarti e stare attento a non superare i tuoi limiti psicologici. Questo vuol dire trovarti delle valvole di sfogo, frequentare persone positive, “staccare la spina”. Trovare delle attività e degli spazi che ti gratifichino è molto importante e ti permette di avere con il depresso un rapporto migliore.
  8. Usa la tecnica del paradosso.
    Il depresso si lamenta? Non cercare di tirarlo su, mostrati invece più negativo di lui, parlando con toni di esagerato pessimismo della vita e dei rapporti umani. Alcuni psicologi di origine sistemica hanno utilizzato questa tecnica con depressi non gravi, ottenendo dei risultati significativi. Quando lo psicologo si mostrava più depresso del paziente, in terapia si verificava un inversione dei ruoli: il paziente cercava di consolare lo psicologo, e così facendo, il suo modo di vedere la vita cambiava radicalmente e il suo umore migliorava

Articolo tratto da www.nienteansia.it

nov 11, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Come riconoscere un Attacco di Panico

Si presenta all’improvviso, senza dare alcun avvertimento. Il cuore inizia a battere forte, il respiro si fa sempre più corto e veloce…un’ondata tremante di paura invade il corpo e la mente.  “Ma cosa mi sta succedendo?”.

Una vertigine che ti fa sbandare, un nodo alla gola che ti blocca il respiro e un senso di nausea incontrollabile ti avvolgono nella frazione di un secondo. La paura inizia a prendere forme sempre più terrificanti, non riesci a capire dove sei e chi sei…”Aiuto ho perso il controllo,  sto impazzendo”…”oddio, no…sto morendo”.

Questo è ciò che si può provare quando si ha un attacco di panico.

I sintomi si sviluppano e raggiungono il picco di intensità nel giro di 10 minuti, dopo di che, tutto pare tornare alla normalità. Dico pare perché chiunque abbia mai provato un attacco di panico, sa quanto sia cambiata la propria vita da quel momento.

Si vive nell’ansia anticipatoria del prossimo improvviso attacco; si evitano tutti i luoghi, le situazioni, le persone, che vengono associati e ricollegati al primo episodio di panico; si è sempre all’ascolto e in allerta di ogni singola percezione che proviene dal corpo.

L’ansia costante che impregna da quel momento la quotidianità, ci spinge ad evitare tutto ciò che ci appare pericoloso: prendere la macchina per andare a lavoro; uscire a cena fuori con amici o andare in locali affollati. Nasce e aumenta velocemente la percezione di essere fragili, di non riuscire più a controllare niente e quindi di vivere nell’incertezza più assoluta. Sfido chiunque a trovarsi in una simile situazione e non avere paura. Il nodo cruciale sta proprio nel circolo vizioso che si instaura tra emozione, percezione e cognizione: l’ansia di provare nuovamente quelle brutte sensazioni porta ad essere costantemente attenti ad ogni minima percezione corporea, ma tale stato di allerta aumenta l’ansia con tutte le sue manifestazioni fisiche (ovvero la tachicardia, il respiro corto e veloce, la sudorazione, le vertigini, i tremori, ecc.). Ecco che queste percezioni corporee avvalorano la preoccupazione di un nuovo attacco imminente, con la conseguenza di avere ancora più paura e quindi di provocare il malessere tanto scongiurato.

 

Ma è possibile interrompere questo circolo negativo? E soprattutto è possibile guarire e non avere più attacchi di panico? La risposta è sì!

Il primo passo da fare è quello di rivolgersi ad un professionista, Psicologo o Psicoterapeuta, che vi aiuta a capire il significato e il senso che l’attacco di panico ha per voi in quel momento della vostra vita. Lo Psicologo:

  • · vi capisce, perché spesso chi ci circonda non riesce a farlo se non ha provato quello che avete provato voi;
  • · vi accoglie, ascoltando le vostre paure senza giudicarvi e senza farvi sentire “stupidi” o “deboli”;
  • · vi rassicura, spiegandovi che l’ansia è la normale reazione a qualcosa che pensiamo essere per noi pericolosa e ci mette nelle condizioni fisiche idonee per poter scappare dal pericolo;
  • · vi accompagna in un processo di comprensione del sintomo, aiutandovi a riflettere su ciò che vi spaventa e perché;
  • · vi sostiene nel prendere consapevolezza delle risorse che avete e che potete utilizzare per cambiare la situazione.
 Articolo tratto da www.nienteansia.it
nov 11, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Depressione post partum: Maternity Blues – Mamme nel buio

Sono diversi i disturbi psichici che possono comparire dopo la gravidanza; in questo articolo pongo l’attenzione sul Maternity Blues, una forma clinica di depressione temporanea e passeggera, che si manifesta nella donna dopo la nascita del figlio. E’ una sindrome che fa riferimento alla tristezza del dopo parto. Si tratta di una sintomatologia che colpisce circa il 70% delle neomamme, ed è caratterizzata da:

  • facilità al pianto, che rappresenta il sintomo centrale
  • stanchezza fisica
  • tendenza all’umore depresso
  • ansia
  • irritabilità
  • difficoltà a prendere sonno o a rimanere svegli
  • cefalea
  • diminuzione della capacità di concentrazione
  • difficoltà elevata nel pensiero
  • senso di inadeguatezza

 

La sintomatologia è evidente verso il 3°- 4° giorno dopo il parto ed ha una durata di una settimana circa, entro la quale si risolve completamente, soprattutto se la donna viene aiutata e sostenuta emotivamente, psicologicamente e materialmente da chi le sta intorno: il compagno, i parenti più stretti, il personale medico nelle prime ore in ospedale. Il compagno è la figura di sostegno fondamentale in questa fase, con la sua presenza, vicinanza, appoggio e amore, la fa sentire accolta, sostenuta, confortata, amata e desiderata, permettendole di prendersi pienamente cura del bambino.

In alcuni casi però, il maternity blues può avere una diversa evoluzione che comprende:

  • la presenza di una sintomatologia più marcata e duratura che supera i quindici giorni dopo il parto;
  • l’evoluzione della sintomatologia in un quadro depressivo vero e proprio
  • una rapida trasformazione del maternity blues nella psicosi post partum che colpisce due madri su mille, caratterizzata da idee deliranti, allucinazioni, vissuti persecutori, stato confusionale della coscienza, atti aggressivi contro se stessa o il neonato, omicidio- suicidio.

Il maternity blues si può considerare non tanto una malattia, quanto piuttosto una reazione fisiologica, anche se la “banalità” del quadro clinico non deve portare a sottovalutarla, perché può evolvere in forme psicopatologiche più gravi, come appena descritto.

 

Fattori che risultano associati alla comparsa del maternity blues.

Esistono diversi fattori che comportano il maternity blues; alcuni sono fattori con aumento di rischio:

  • fattori biologici (ossia lo sconvolgimento ormonale dopo il parto)
  • sindrome premestruale
  • prima gravidanza
  • depressione in gravidanza
  • difficoltà di allattamento naturale

altri sono fattori senza aumento di rischio:

  • fattori socio- ambientali
  • precedenti disturbi psichici
  • ospedalizzazione
  • difficoltà ostetriche
  • patologia neo-natale

 

A chi chiedere aiuto.

Primo punto di riferimento per le mamme in difficoltà dovrebbero essere i parenti che possono aiutare la donna a ritrovare la sua serenità dando, eventualmente, anche un aiuto pratico nella cura del bambino, soprattutto nei primi tempi; dall’altra possono far capire alla neomamma che nessuno nasce esperto e che anche lei, un po’ alla volta, può imparare ad essere una madre “sufficientemente buona”. (D. Winnicot)
Esistono i consultori ai quali possono rivolgersi le mamme e le famiglie in difficoltà, dove sarà possibile trovare tutta l’assistenza di cui si ha bisogno.
E’ possibile usufruire anche di varie associazioni (in alcuni casi presenti già all’interno delle strutture ospedaliere) nate proprio con lo scopo di venire incontro alle esigenze delle donne che hanno appena partorito guidandole e sostenendole in caso di bisogno.

E’ utile confrontarsi con donne che hanno vissuto la stessa situazione.

 

Quando lo stato di salute di una mamma, dopo il parto, evolve in una condizione psicologica grave, bisogna rivolgersi, ai servizi di assistenza sociale per salvaguardare la vita del bimbo e agli specialisti della salute mentale (pubblici o privati) per la cura della donna. Entrambi gli interventi sono fondamentali e necessari per garantire la vita e il benessere alla mamma e al figlio.

Articolo tratto da www.nienteansia.it

nov 9, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Vecchie e nuove dipendenze

Il momento socio-culturale che stiamo vivendo sembra essere quello in cui le correnti classificazioni, categorizzazioni e tipologie non sono in grado di reggere alla lettura del reale da parte di nuovi strumenti di analisi a cui prima non si faceva ricorso. Cosicché il maggiore spazio offerto alla ricerca permette ora di formulare nuove ipotesi a partire dagli stimoli provenienti dalle cosiddette “zone grigie”.

La distinzione socio-culturale tra generazioni “asciutte”, contrapposte a quelle “bagnate”, tra paesi legati al vino, alla birra o ai superalcolici, è ormai divenuta, da un punto di osservazione prettamente sociologico, priva di senso. Anzi, trascurando le più recenti acquisizioni antropologiche sugli scambi, sta avvenendo, forse, una sorta di grossolana inversione di ruoli, sia pur all’interno di significativi fattori di continuità, relativi alla socializzazione al bere, che resta pur sempre “socialmente indotta, socialmente controllata, socialmente rilevante”.

Quali sono le categorie adatte a rappresentare le trasformazioni  degli stili del bere, in che termini e con quale linguaggio esprimerle? L’onestà intellettuale impone prudenza e riconosce la difficoltà descrittiva del nuovo senza ricorrere a vecchie espressioni, e dunque la resistenza a liberarsi di concezioni superate, per approdare alle idonee innovazioni.

Uno dei dati più significativi emersi dagli studi attuali è il mutamente delle culture del bere, che, a seconda dei paesi può riguardare gli elementi principali del consumo, quali, per esempio, gruppi, forme di controllo, preferenze, frequenza, funzione, contesto e situazione.

La prima distinzione si basa sul tipo di bevanda che tradizionalmente è consumata in misura prevalente: vino, birra e superalcolici rispettivamente per Europa meridionale, centrale e settentrionale. In area mediterranea, e quindi nei paesi del vino, la parte preponderante delle bevande alcoliche consumate continua a essere costituita dal vino, anche se il volume di consumo è diminuito drasticamente, fin quasi a dimezzarsi, lasciando spazio a nuovi significati relativi a tale consuetudine di ingestione. I paesi della birra hanno aumentato percentualmente il consumo del vino, mentre i paesi che abitualmente si dedicavano ai superalcolici, adesso oscillano tra birra e vino.

Eppure questa che sembra una semplice instabilità di vocabolario si riflette sulle difficoltà di classificazione nelle categorie tuttora a disposizione.

 

La seconda classica distinzione divide le culture e le generazioni “bagnate” da quelle “asciutte”, in riferimento alle abitudini di consumi, quindi corrispondendo a categorizzazione più ampia di quella dettata dal solo livello. Le culture bagnate del mediterraneo infatti sono tipicamente caratterizzate da grandi quantità di consumi, frequenti e piuttosto estesi, con alta incidenza di problemi determinati da questo consumo elevato e costante, ma anche da un basso livello di intossicazioni alcoliche, come da piccole minoranze di astemi e scarsa pressione da parte di movimenti di temperanza. Le profonde differenze rispetto ai sistemi di controllo sociale sul bere sono basilari nella distinzione tra culture bagnate mediterranee e quelle asciutte dei paesi anglofoni e nordici, in cui le caratteristiche sopra esposte si situano sostanzialmente all’opposto (Room R., Mäkelä K. 2000).

Una terza classificazione sembra prestare maggiore attenzione agli usi delle bevande, in relazione a caratteristiche materiali e dei contesti di assunzione delle stesse. In alcune culture gli alcolici hanno fornito un importante apporto calorico giornaliero, entrando a pieno titolo a far parte integrante della dieta alimentare, come la mediterranea. In altri contesti, sono stati associati quasi esclusivamente all’intossicazione del fine settimana, di feste e celebrazioni varie, in quanto bene di lusso e quindi raro. Anche queste classificazioni sono state indebolite dal moderno stile di vita, dal radicale mutamento della struttura familiare, dalla concentrazione urbana.

 

Per le persone che ai problemi alimentari uniscono l’abuso di alcol  è stata coniata la definizione “drunkoressia” che affianca l’anoressia all’ubriacatura. L’abuso, a volte impiegato per indurre il vomito dopo una crisi bulimica, finirebbe col divenire l’unica fonte di calorie. Alcolismo e disturbi alimentari presentano caratteristiche comuni, perché chi tende ad abusare è naturalmente portato ad abusare di tutto e di più, e quindi ancora di altro. Gli alcolisti, come i bulimici, sono spesso anche anoressici e lo stomaco ricolmo di liquidi risulta più facilmente svuotabile.

La maggior parte dei disturbi che associano cibo e alcol riguardano adolescenti di sesso femminile, poiché le giovani donne, quanto ad abuso di alcolici, superano i loro coetanei, di cui solo un quarto dichiara di ubriacarsi almeno una volta l’anno. La drunkoressia si connota pertanto quale disturbo di genere e d’età, a partire da un disagio psicologico, riconducibile a pressioni sociali ed equivoci messaggi pubblicitari che associano il bere al successo. L’assunzione di valore di relazione sociale, invece che di consumo alimentare, con il concomitante abbandono della dieta mediterranea, avvenuto circa tre lustri addietro, e l’introduzione dell’aperitivo a determinate ore, assieme all’assaggio di antipasti estremamente grassi, ha contribuito a completare il mutamento di stile nel bere.

Laddove prima non sarebbero mai stati previsti, sembra si siano ora diffusi alcuni stili del bere giovanili, come il binge drinking, definizione di Henry Wechsler (1994) coniata per indicare il consumo, in una singola occasione, di 4, o 5, drink, rispettivamente per femmine e maschi, di difficile comparazione però, sia per quanto riguarda il significato specifico per l’ambiente anglosassone, sia per quanto riguarda le unità alcoliche (8 grammi per la Gran Bretagna, 14 per gli Stati Uniti). I cambiamenti nei diversi valori d’uso sono comunque da considerare un indicatore molto significativo di mutamento di stile e di relazione.

“I nostri anni hanno accelerato, come in altri aspetti del vivere, le diversificazioni sia sul piano tossicologico, con le droghe sintetiche e l’espansione del consumo di cocaina, sia sul versante interpretativo: sono gli anni della cultura dell’addiction; delle dipendenze patologiche; all’interno di uno stesso spettro, vengono riconosciute diverse forme di comportamento compulsivo (gioco, shopping,, internet, disturbi alimentari). – ammette Alessandro Dionigi in “Vecchie e nuove dipendenze” (Clueb, Bologna 2010) – Emerge la tendenza alla consumopatia come sfondo del vivere, come elemento non secondario della civiltà ipermoderna in cui esistiamo. Il fenomeno droga invade la popolazione globale, molti soggetti che la consumano si collocano in una quotidiana normalità e non si riconoscono in rappresentazioni e spiegazioni degli anni precedenti”.

 

Che gli alcolisti non siano tutti uguali è ormai noto da tempo e pertanto non vanno trattati allo stesso modo, bensì a seconda delle caratteristiche della loro dipendenza, come anche di quelle del loro patrimonio genetico. Non funzionando su tutti allo stesso modo i farmaci che inducono diminuzione del desiderio di alcolici, si è pensato di mettere a punto terapie personalizzate in base al dna. La soluzione proposta è quella di impiegare farmaci mirati su specifiche tipologie riconducibili a particolari varianti genetiche.

I figli di genitori alcolizzati hanno una probabilità quattro volte più elevata di sviluppare problemi d’alcolismo, anche quando venissero adottati da famiglie di astemi. Per i figli maschi questa probabilità sale ancora di più, fino a nove volte.

Alcuni dei geni incriminati  si rintracciano all’interno dello stesso gruppo etnico. Un terzo della popolazione dell’Asia orientale presenta una variante genetica che comporta una rapida conversione dell’alcol in acetaldeide, responsabile di rossore, nausea e tachicardia, il che costituisce un ottimo deterrente al bere, al contrario di quanto avviene invece con i finlandesi.

Alcuni pazienti con due peculiari varianti di un gene legato al neurotrasmettitore serotonina avrebbero ridotto il loro consumo di alcolici assumendo una molecola antinausea (ondansetron), che, bloccando i recettori serotoninergici, diminuisce il senso di ebbrezza. Nei pazienti che dimostrano di avere una variante del gene per i recettori degli oppiodi, il rischio di ricaduta verrebbe frenato dal naltrexone, che intralciando i recettori degli oppioidi, riduce il desiderio di alcolici.

La complessità, comunque, della relazione tra geni e alcol viene suggerita dalla presenza di geni che determinano la velocità di metabolizzazione da parte del fegato, quelli che influenzano la reazione cerebrale al piacere o allo stress, oppure alla depressione o all’ansia.

Sostanzialmente, da quest’ultimo punto di vista, le principali categorie di riferimento potrebbero essere riconducibili alla dicotomia de: i prevalentemente ansiosi, che indugiano nel bere per calmare la sensazione di stress che li assale quando sono in astinenza, e quelli che invece traggono dall’alcool una sorta di gratificazione con sensazione di benessere e di potenza, alla quale non riescono più a rinunciare.

Le ultime novità farmacologiche per le diverse tipologie sono oggi ritenute parte integrante delle cure psichiatriche, da sole molto spesso insufficienti.

La categoria degli alcolisti meno stressati sembra abbia un particolare assetto genetico per quanto riguarda gli oppioidi  endogeni, i cui recettori sarebbero mutati rispetto a quelli della popolazione generale. Sono questi i malati che rispondono meglio a farmaci impiegati per altre dipendenze da oppiacei, come appunto il naltrexone. Incoraggianti sono i dati riguardanti i prodotti contro il tabagismo, tipo vareniclina, e anticonvulsivi, come il topiramato. Rimane eventualmente da stabilire la durata e le modalità del trattamento, che potrebbero limitarsi ai soli periodi di crisi o costituire profilassi a vita.

Per gli alcolisti ansiosi, soprattutto a causa dello stress, per i quali l’alcol svolge già di per sé funzione auto-terapica, il settore farmacologico più promettente punterebbe maggiormente all’intervento sui meccanismi fisio-patologici dello stress e, in particolare, sui circuiti dell’ormone corticotropin-realising factor (crf). Ma, in questo caso, siamo ancora a livello del tutto sperimentale con un antidepressivo, denominato LY686017, unico a interagire con crf.

 

L’Italia si situa tra i paesi caratterizzati da una cultura del bere cosiddetta “bagnata”, ossia basata su di un prevalente consumo di vino accompagnato al cibo e in contesti di socializzazione. La riduzione del consumo sarebbe sopraggiunta con l’affermazione, negli anni 70, di una nuova organizzazione del lavoro (industrializzazione fordista) e del massiccio inurbamento, con cui sarebbe iniziato un processo di modernizzazione consumistica che verrà a completarsi con la progressiva riduzione delle professioni manuali a vantaggio di quelle impiegatizie.

Questo processo, secondo Pierre Bourdieu (1979), ha contribuito all’incremento delle rappresentazioni simboliche dei beni da acquistare, in rapporto pure alla diminuzione della loro durata d’uso, entrando così a interagire con entrambi i lati delle qualità della memoria: il ricordo e l’oblio.

“Si tratta piuttosto di elementi costitutivi delle pratiche sociali e individuali e dei rituali contemporanei attraverso cui ricordiamo e dimentichiamo, al cui interno un ruolo di particolare rilievo giocano i rituali di consumo”, scrive, citando Mary Douglas e Baron C. Isherwood (1979), Roberta Bartoletti – “La memoria (culturale) delle cose: oggetti di consumo e contronarrazioni identitarie” – (in “La forza sociale della memoria”: a cura di Doni M. e Migliorati L., Carocci, Roma 2010).

Tipicamente oggetto per dimenticare, in qualità di forma denaro, vettore principale dell’oblio, è ciò che si mercifica; consentendo un ancoraggio, oggetto per ricordare, è invece il feticcio. Diverse forme di feticci moderni che costellano le esperienze quotidiane si rapportano alla memoria del singolo, come alla cultura collettiva, mentre, nel caso della merce, l’aggancio si configura con la memoria sociale, nell’accezione di Niklas Luhmann (1991).

Gli oggetti di consumo fuoriusciti dagli angusti confini della sfera domestica e privata, hanno assunto rilevanza pubblica, nella costruzione di identità collettive, prima che individuali, e la crescente rilevanza dell’esperienza del consumo, in relazione al ricordo e all’oblio, ha gravato sul ruolo della cultura materiale costituitasi negli ultimi cinquant’anni.

Allo snodo di questi avvenimenti si situa la generazione dei nati tra il 1937 e il 1940 : sono persone che, da piccoli, hanno vissuto in prima persona l’esperienza della guerra e, da adolescenti, hanno visto crescere il settore industriale a scapito dei lavoratori impegnati in agricoltura, venendo coinvolti nelle relative ondate migratorie. Intorno ai vent’anni, hanno vissuto in pieno boom economico, con aumento del reddito e conseguente incremento del potere d’acquisto. Il nuovo modello di produzione ha richiesto una ricomposizione dei tempi da dedicare al lavoro (costretto) o loisir (libero).

La maggiore attenzione a stili di vita salutisti degli anni 80 avrebbe privilegiato prodotti di qualità, innescando meccanismi di informazione, esplorazione, acquisto ed espressione identitaria. La crescita del livello d’istruzione, la mobilità sociale, la trasformazione del’istituto familiare, con modificazioni di ruolo delle donne, le possibilità di scelta hanno colmato il resto del dinamismo scenico. La tendenza generalizzata, in relazione all’opzione di impiego, si avvia verso la convergenza con riduzione della bevanda tradizionale in favore della sovrapposizione delle novità, e in particolare della birra, in specie per le nuove generazioni.

Il cambiamento culturale più significativo del modello d’uso è quello che coinvolge il genere femminile, e le ragazze, nell’incremento di consumo degli ultimi anni. Ciò è stato maggiormente registrato a partire dagli anni sessanta nei paesi nordici, dove per prima, essendo percepita come rilevante, si è concentrata l’attenzione sull’alcohol policy, in controtendenza nei confronti della riduzione di consumo globale registrata in nazioni come l’Italia, in totale assenza di controllo formale. Per cui c’è da supporre un meccanismo di autoregolazione nello spontaneo adattamento degli stili del bere alle trasformazioni sociali e di conseguenza a quelle di socializzazione alcolica, fondamentali per la cultura mediterranea.

 

Le persone, lasciandosi influenzare dalla cultura del contesto di appartenenza,  acquisiscono atteggiamenti e abitudini sin da giovani, i quali, più degli adulti, sono contemporaneamente pronti a recepire l’introduzione e la diffusione di nuove mode. All’instaurarsi e consolidarsi delle abitudini contribuiscono il processo informale di accostamento e apprendimento dei valori attribuiti nel corso della socializzazione, che avviene secondo un’evoluzione guidata dalle relazioni.

“Per l’individuo, – scrivono Franca Beccaria, Franco Prina, Sara Rolando, Jenni Simonen, Christoffer Tigerstedt e Jukka Törrönen, nell’Introduzione a “Alcol e generazioni” (a cura di Beccaria F., Carocci, Roma 2010) – il processo di socializzazione significa apprendere competenze, abilità e abitudini necessarie per prendere parte e agire nelle diverse occasioni di consumo nell’ambito di una data cultura; per la società, socializzare i propri membri  a valori d’uso, norme e situazioni di consumo prevalenti significa riaffermare la propria continuità sociale e culturale”.

Con “The problem of generation” (in “Essays on the sociology of knowledge”, 1952), Karl Mannheim ha introdotto i concetti di “sito generazionale”, relativo agli aspetti epocali storico-geografici simili per gli anni della formazione di determinate persone, e di “condizione generazionale”, riguardante interpretazioni e orientamenti condivisi nell’organizzazione delle proprie esperienze, dai quali si può dedurre l’assunto di base che solo in giovane età possa avvenire l’interiorizzazione delle abitudini, sia pure secondo una concezione fenomenologica e pragmatica, per come descritta da Margaret Mead (1934) e Maurice Merleau-Ponty (1942), alla quale si è venuta ad aggiungere quella di habitus di Pierre Bourdieu (1979). La loro influenza culturale ci aiuta a formulare dei raggruppamenti caratterizzati dal carattere situazionale, dalle motivazioni e scopo del bere, nonché dalle norme che lo regolano.

Il set delle modalità si apprende per imitazione dall’ambiente circostante e lo si pratica abitudinariamente. Il repertorio delle tipologie può variare dal bicchiere di vino a tavola alla bevuta di fine settimana con gli amici. In occasioni specifiche, si è in grado di esprimere se stessi comunicando e decodificando motivazioni comuni, tanto da manifestare, nella loro ripetizione, come una “seconda natura” di struttura percettiva e interpretativa. Le forme di controllo formali, o normative, e informali, socio-culturali e individuali (autocontrollo), andrebbero analizzate  in base al tipo di costrizione esercitata su motivazioni, abitudini, occasioni ed eventi di consumo, nella prospettiva, secondo la definizione di Peter Hedström e Richard Swedberg (1998), di una “spiegazione attraverso meccanismi sociali”, che regolano i comportamenti delle persone essenzialmente in termini di desideri, opportunità, credenze, ecc.

Con “spiegazione attraverso meccanismi sociali”, Filippo Barbera (2004), indica il percorso che parte dall’influenza delle condizioni sociali sulla posizione individuale (meccanismo “situazionale”), l’interazione degli effetti sui singoli agenti (“formazione dell’azione”), la ricomposizione collettiva dell’insieme di gesti individuali (meccanismo “trasformazionale”). Si tratta dunque di un continuum procedurale che correla prospettive macrosociologiche delle variabili quantitative alla metodologia microsociologica, che qualitativamente riconosce senso e valuta desiderabilità.

Il cambiamento di classe ha modificato le risorse di socialità, in rapporto ad aspirazioni mutate, anche relativamente alla sostituzione di simbolismi di status. Per Michel Maffesoli (Le Temps des tribus, 1988), il lifestyle rispecchia la collettività di un’epoca, senza per questo sminuire, come rammenta  Steven Miles (2000), l’importanza dello stile di vita individuale sulla costruzione identitaria dei giovani.

La “prospettiva dinamica e processuale” focalizza l’attenzione sulle diacroniche transizioni che caratterizzano la “carriera” o la “traiettoria” in merito a singole esperienze o posizioni biografiche, anche rispetto alla constatazione che le abitudini si modificano in determinate fasi del “corso di vita”. La discontinuità, tra tarda adolescenza e terzo decennio, viene interpretata quale riflesso della maturazione verso la genitorialità, ritenuta incompatibile con gli eccessi. Il passaggio di status, connesso all’attività lavorativa, alla famiglia, o alla salute, per via dei significati attribuiti alle aspettative di ruolo, coinvolgimento, qualità delle relazioni, grado di vulnerabilità o capacità di coping, eserciterà un peso determinante, tale da far riconoscere a Gianpaolo Fabris  (1995) che le bevande hanno assunto valore di “icona sociale”, “per la capacità che manifestano di intercettare trend sociali particolarmente attivi, di metabolizzare valori particolarmente espressivi del tempo presente”.

Sebbene le scelte di consumo di un prodotto non rappresentino necessariamente delle scelte di vita, assumono però significati profondi nelle esperienze immateriali delle persone, che con quegli atti esprimono un comportamento simbolico.

 

Gli stili di consumo dei giovani si adeguano al cambiamento accogliendo le novità, senza, per questo, trascurare completamente la continuità del passato. Quest’adattamento al presente, con passiva accettazione dello status quo, ha suggerito a Ilvo Diamanti la qualifica per loro di “La generazione invisibile”.

Le differenze di classe non riflettono più le diversità di consumo, richiedendo uno schema interpretativo che tenga presente l’evoluzione stessa del consumo in sé, da espressione culturale, o identitaria, a mezzo di comunicazione o sistema semiotico, smentendo la considerazione di Lloyd A. Fallers (1954) sul “Trickle Effect”, in base alle quali le mode si trasmettono dall’alto verso il basso, dalle classi superiori alle inferiori. Sebbene persista la stratificazione sociale, i giovani sono in grado di attenuarne, almeno parzialmente, l’impatto sul piano relazionale, grazie alla ridefinizione dei ruoli, e delle proprie rappresentazioni in seno agli aggregati impostati su affinità elettive, costituite dalla condivisione di interessi, gusti, passioni e altre condizioni che accomunano. L’estrema mobilità tra gruppi di aggregazione ha reso questi ultimi altrettanto mutevoli, in quello che Michel Maffesoli ha identificato quale melting pot tribale.

Per eludere l’ansia che una scelta individuale comporterebbe, aderiscono agli stili di consumo di gruppo, identificandosi con esso, e procrastinando così la costruzione di una propria identità. Pur rimanendo ancora valida la teoria della differenziazione sociale di Pierre Bourdieu (1979), con l’accentuarsi del valore simbolico dei beni di consumo, gli autori di “Alcol e generazioni” (2010), propongono come più adeguata la definizione di style symbol.

La moltiplicazione delle scelte ha prodotto un angoscioso senso di responsabilizzazione con dirompente effetto di disorientamento da “sindrome di Stendhal”. L’ambigua scissione di quanti sono cresciuti in un tempo in cui il consumismo si è incarnato in uno stile di vita, si dimostra nella naturalezza di disincantato simbolismo percepibile in tutto il suo potere attraente, come anche contemporaneamente nella possibilità di lucido riconoscimento di limiti da sfruttare, con funzione tranquillizzante, nell’eventualità di uno sgretolamento di precedenti certezze.

Le occasioni del bere giovanile si concentrano nel tempo libero e crescono con la disponibilità di questo.

“Il tempo del consumo si mescola sempre più al tempo libero e del tempo libero assume  alcuni connotati”, osserva Roberta Sassatelli (2004). Il consumo si configura occasione ludica di divertissement ed entertainment, comunicazione, incontro nel quale intessere un’ironica e disincantata relazione di complicità. La propensione al divertimento ha concorso alla valorizzazione del consumo e alla sua desiderabilità, in virtù della disinibizione che consente maggiore libertà di vivere pienamente le proprie emozioni, con totale affrancamento da quella che Max Weber chiamava “censura del piacere”.

In un mercato saturo a guidare i consumi sono i desideri dell’homo ludens, più che i bisogni dell’homo oeconomicus. Come descritto da Joseph H. Pine e James H. Gilmore (1999), il prodotto ha perduto il suo valore, rispetto all’esperienza emotiva che è in grado di procurare in senso olistico. La storia degli ultimi anni ha assistito al progressivo allargamento dello spazio del piacere, divenuto, per Jon  Elster, una “dimensione culturalmente segnata”. L’edonismo impone una globale mobilitazione di tutti i sensi la quale riesca ad attivare quelle capacità prestazionali che coinvolgano, nell’accentuazione percettiva, non solo il sapore, ma pure il contatto con gli altri, la musica, i colori, i profumi del posto. Questo orientamento estetico ha determinato un atteggiamento di rivalutazione emotiva della fisicità corporea, veicolando desideri di forti sensazioni, passioni ed emozioni, ai limiti tra la ricerca di intensità degli stati d’animo, la visceralità e la dipendenza. Ma le regole che si è data la tribù svolgono il ruolo di contenimento dei danni, se il processo di produzione del senso di identità individuale passa attraverso quello di appartenenza piuttosto che per la trasgressione dell’eccesso non sancito dal rito collettivo. Del resto, più la situazione si presenta indistinta e mutevole, maggiormente emerge da tanta confusione la necessità di riconoscimento. E ciò in virtù di un’interiorizzazione degli altri valori d’uso del bere, dal conviviale al cerimoniale. Difatti i giovani costruiscono la propria identità generazionale ridefinendo l’identità culturale ricevuta e riadattandola alla contemporaneità.

Zygmunt Bauman ha descritto la società postmoderna come quella in cui si continua ad avvertire prepotentemente una “voglia di comunità”, non più soddisfatta però dalle tradizionali forme di aggregazione basate su relazioni stabili e rafforzate dall’identificazione in principi e valori. Questo bisogno viene deragliato verso surrogati flessibili, fittizi e a breve scadenza. Effimere “grucce” sulle quali sostenersi momentaneamente, il cui tessuto empatico controbatta le preoccupazioni con la sicurezza fornita dallo stare insieme.

In “Au-delà du marché: quand le lien import plus que le bien” (1995), Bernard Cova aveva descritto questo nuovo stile relazionale, evidenziandone il forte desiderio di intessere rapporti interpersonali con il termine linking value. Il valore del legame con l’altro supera quello del prodotto acquistato.

Con la duplice funzione di differenziazione da estranei e di assimilazione al gruppo di appartenenza, lo stile medesimo assume valenza identificante, piuttosto che omologante, per giunta in linea con la tendenza post-fordista di scartare le standardizzazioni per ricorrere a varietà di finiture, sia pure prodotte in serie (Sassatelli 2004).

Anche la dicotomia dentro o fuori casa si affianca a quella riguardante lo stile, tradizionale o trasgressivo, il controllo o la libertà d’uso e d’abuso. L’eccesso comunque non necessariamente equivale al superamento di un limite invalicabile, bensì appare come esperimento ludico di entertainment, nella ricerca di forti sensazioni, perseguita con i toni ironici con cui possono essere espressi i paradossi dell’attuale eclettismo consumistico. Nel difficile compito di costruire e comunicare la propria identità molteplice e complessa, l’abuso rientra nel desiderio di protagonismo, ancora inadeguato ai ruoli che la vita quotidiana comporta, ambiguamente commisto all’ansia da prestazione generata dalla responsabilizzazione della libertà di scelta.

La necessità di fissare determinati momenti salienti, o di transizione, in una sorta di cerimoniale di passaggio, si intravede nei cosiddetti rite of life projects.  Ulrich
Beck ha rilevato l’adattamento alle caratteristiche moderne delle vecchie strutture liturgiche delle teorie antropologiche di Arnold Van Gennep (1960). L’oggetto rappresentato dalle sostanze psicotrope svolge il ruolo di detonatore emotivo per la condivisione dei valori di gruppo, giustificando i comportamenti che ne derivano. Ciascuno poi riveste di significati personali questo contrassegno di progettualità individuale, celebrato collettivamente.

 

Giuseppe M. S. Ierace

 

 

Bibliografia essenziale:

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Beccaria F. (a cura di): “Alcol e generazioni”, Carocci, 2010

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Bourdieu P.: “La distinction. Critique sociale du Jugement”, Minuit, Paris, 1979

Cova B.: “Au-delà du marché: quand le lien import plus que le bien”, L’Harmattan, Paris 1995

Diamanti I.: “La generazione invisibile”, il Sole 24 ore, Milano 1999

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Luhmann N. : “Soziologie des Risikos”, de Gruyter, Berlin 1991

Maffesoli M.: “Le Temps des tribus, le déclin de l’individualisme dans les sociétés de masse”, La Table Ronde, Paris 2000

 

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Sassatelli R.: “Consumo, cultura e società”, il Mulino, Bologna 2004

Van Gennep A.: “The rite of passage”, Routledge-Kegan Paul, London 1960

Wechsler H., Davenport A., Dowdall G., Moykens B., Castillo S.: “Health and behavioural consequences of binge drinking in college: A National survey of students at 140 campuses”, in Journal of the American Medical Association, 272, 1672-7, 1994

Articolo tratto da www.nienteansia.it

nov 9, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Elaborare il lutto: superare la perdita di una persona cara

Nella vita di un essere umano il provare dolore per via di un lutto è un’esperienza inevitabile. Il lutto è un evento naturale e universale ed è importante metabolizzare il senso di perdita di una persona cara; infatti, se non si elabora almeno in parte tale perdita e si rimane prigionieri dell’angoscia, l’esperienza da dolorosa può diventare traumatica.

Bowlby (1969, 1973, 1980) mette in evidenza il ruolo dell’attaccamento – propensione innata a cercare la vicinanza protettiva di una figura ben conosciuta in situazioni di pericolo, dolore, fatica o solitudine – nello sviluppo e nel comportamento umano e le conseguenze che la carenza o la perdita di tale attaccamento comportano. Secondo il suo modello, l’elaborazione del lutto si articolerebbe in quattro tappe che nell’esperienza soggettiva s’intersecano e si sovrappongono di continuo secondo percorsi non lineari:

- fase di stordimento: dolore o ira intensi a seguito della notizia della morte della persona cara;

- fase di struggimento e ricerca della persona perduta: difficile consapevolezza della morte avvenuta caratterizzata da rabbia; da una parte presa atto della realtà e reazione a questa consapevolezza con angoscia e disperazione, dall’altra rifiuto di tale consapevolezza e ricerca di recuperare chi si è perduto alimentando la speranza che tutto possa tornare come prima. Solo dopo aver fatto tutti i tentativi di recuperare la persona perduta è possibile accettare l’irreversibilità della perdita e procedere nel lavoro del lutto;

- fase di disorganizzazione e disperazione: riorganizzazione del proprio modo di sentire, pensare, agire dovuta all’assenza definitiva dell’altro; confusione e smarrimento che preludono a una ridefinizione di se stessi e della propria vita che prende atto dell’impossibilità di recuperare la persona che non c’è più;

 

- fase di riorganizzazione: cambiamento che genera nuove rappresentazioni della realtà percepita come irreversibile.

Una delle caratteristiche principali del lutto non elaborato sta proprio nell’incapacità o nella difficoltà di esprimere in maniera aperta la rabbia e i tentativi di recuperare chi si è perduto che porta alla presa di coscienza dell’irreversibilità della perdita conducendo all’esigenza pratica di riorganizzare la propria vita. Ma se tali emozioni vengono dissociate e represse continuando cosi a esistere ma non trovando un’aperta espressione, influenzeranno sensazioni e comportamenti in maniera anomala e distorta.

E’ bene tener presente che non tutte le esperienze sono uguali. Vi sono elementi protettivi/di resilienza (es. introspezione, sostegno sociale, fiducia nelle proprie capacità di fronteggiare l’evento) che, giocando un ruolo con i fattori di rischio/vulnerabilità (es. accumuli di lutti e perdite di vario tipo in un arco di tempo, mancanza di sostegni sociali sia psicologici che materiali), concorrono a deteminare l’esito dell’elaborazione dell’evento.

Specificando che la tematica è complessa e non esauribile in queste brevi righe, si può concludere che il lutto è un evento negativo da affrontare, superare, elaborare con l’obiettivo di dare senso alla propria vita: dar voce a emozioni e pensieri, condividere la sofferenza sentendosi compresi, integrare l’evento nella propria biografia, tornare sui ricordi legati alla persona cara fino a quando quella perdita non risulta più così intollerabile.

Articolo tratto da www.nienteansia.it

nov 9, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Amore, mio carnefice!

  

La violenza psicologica nella coppia

Nella totalità delle relazioni di coppia vi sono momenti di incomprensione, discussioni o litigi. Saper superare tali episodi è indice di bontà della relazione, nonché momento di crescita congiunta ed aumento della coesione tra i partner.

Esistono però moltissime relazioni sentimentali in cui le incomprensioni, le frustrazioni e la sofferenza diventano la regola.

Con sempre maggiore frequenza mi capita di seguire pazienti intrappolati in relazioni patologiche, che generano sofferenza psicologica, emotiva e somatica. In tali relazioni, i cicli comunicativi che uno dei partner provoca, sono profondamente lesivi per la persona sottomessa, per cui si deve parlare di vera e propria violenza psicologica.

Rispetto ad altre forme di violenza, più evidenti, più esplicite e quindi riconoscibili, come la violenza fisica, o quella sessuale, la violenza psicologica si insinua, nella persona che la subisce, in modo subdolo e pervasivo, tanto da condurre la vittima a non riconoscersi più, a perdere il contatto con se stessa, a non riuscire più ad esprimersi e a pensare spontaneamente.

La persona si sente svuotata, sola, perde completamente la progettualità, si spegne, e si sente in qualche modo responsabile di ciò che le sta accadendo. Tende ad isolarsi, a non parlarne con nessuno, per mantenere una sorta di “rispettabilità” della propria coppia, o nucleo famigliare, per diverse ragioni. Lo fa perché molto spesso la reazione degli altri è, nella migliore delle ipotesi,  colpevolizzante (es.”Avresti dovuto capirlo prima!”), quando non, addirittura, di incredulità, di dubbio, poiché i meccanismi comunicativi messi in atto dal partner dominante sono molto difficili da individuare e spiegare a chi non vi assiste direttamente. Queste caratteristiche imprigionano la vittima poichè, agendo direttamente sulla sua capacità critica ed attaccando pesantemente la sua spontaneità di espressione e di pensiero, la legano alla credenza che, accettando, e provando ad “andare incontro” al partner, questi potrà cambiare.

 

Un passo utile a riconoscere la patologia,  e l’inaccettabilità, di una relazione di questo genere, è quello di osservare molto attentamente il proprio carnefice.

Solitamente il partner dominatore è una persona solitaria, anche quando possa risultare adeguato socialmente o brillante in compagnia. L’aspetto enigmatico, riservato, poco espressivo, freddo e severo celano una anafettività di base, dovuta all’assenza degli strumenti psichici fondamentali per entrare in relazione con qualcuno.

L’Io è fragilissimo, iperprotetto da una corazza impenetrabile, e qualsiasi tipo di relazione intima costituisce una minaccia insopportabile di rifiuto, abbandono, disintegrazione e distruzione del Sè.

Tutti, per natura, temiamo la perdita delle relazioni affettive importanti, poiché tale perdita costituisce una ferita alla nostra amabilità personale, al nostro valore, all’autostima. Per i cosiddetti “carnefici”, tali minacce, sono qualcosa di più drammatico poiché l’autostima, in loro, è talmente bassa da costringerli a proteggere la fantasia di un Io ipertrofico, onnipotente, grandioso, che non può amare, ma può solo dominare, controllare e sottomettere totalmente il partner. Per questo sono attenti a conquistare la loro “preda” e ad uscire allo scoperto, con comportamenti violenti, soltanto dopo essersi assicurati la tenuta della relazione (con l’aggancio patologico ai sentimenti della vittima, con la nascita di un figlio, con il matrimonio, con la subordinazione economica e con l’isolamento sociale ed affettivo dell’altro).

Al contrario di quanto si possa pensare, molto sovente, la vittima prescelta è una persona forte, socialmente affermata, con una vita emotiva ricca. Questa viene lusingata da comportamenti, come gelosia ed esclusività, che vengono confusi con prove di un amore speciale.

Uno degli aspetti che maggiormente disorienta chi è coinvolto in relazioni affettive con questo tipo di partner è il dubbio su come possa, una persona che dice di amare, essere così freddamente spietata. Ci si chiede se certi comportamenti possano essere calcolati in modo tanto machiavellico e sottile.

Certamente si è al cospetto di personalità estremamente intelligenti, spesso con QI superiore alla media, che non sono consapevoli del dolore che provocano, poiché incapaci di provare alcun sentimento. La condizione di coppia attiva in loro, come un’automatismo difensivo, l’esercizio dei più svariati soprusi, con la convinzione di essere nella ragione.

Sono proprio l’incapacità di provare empatia, pena, di immedesimarsi nel dolore dell’altro i tratti distintivi del carnefice  (perlopiù Personalità Paranoidee, Narcisistiche, Psicopatiche).

L’inconsapevolezza è indice di prognosi negativa rispetto a qualsiasi cambiamento, ed è allo stesso tempo fattore di mantenimento della relazione poiché  costituisce spesso, ciò che la vittima scambia per (o sceglie consapevolmente di interpretare come) alibi.

l sentimento che il carnefice prova è autentico, e l’oggetto di amore gli diventa vitale. Proprio perché non può farne a meno, vive l’altro come una minaccia talmente pericolosa da dover controllare ed annullare.  Non ne sopporta le caratteristiche che lo avevano attratto all’inizio: l’autonomia e l’indipendenza, poiché le vive come un tradimento della loro simbiosi.

Per verificarne l’affidabilità, inizia a sottoporre il partner a dei test insostenibili, che gli confermino la sua convinzione di base: l’amore non esiste.

Nutre il proprio vuoto strutturale succhiando l’energia vitale della preda denigrandola, sminuendola, criticandola, umiliandola, torturandola psicologicamente, senza provare compassione [Di Battista, D.; 2012].

Le modalità perverse di comunicazione interpersonale che i carnefici attuano nella coppia sono sostenute, come sopra scritto, da un elevato livello cognitivo, caratterizzato da fredda razionalità.

Il carnefice non si mette mai in discussione poiché riconoscere la propria responsabilità significherebbe “perdere potere” nei confronti dell’altro, che viene vissuto costantemente sul piano della sfida.

Usa, nei casi di confronto, una modalità comunicativa confusa e confondente: dice e nega la stessa cosa, non è mai diretto, non ha spiegazioni sensate alle proprie affermazioni, oppure usa strategie dialettiche assolute, che rendono, qualsiasi risposta, un errore.

Il carnefice tiene in scacco la sua vittima proprio evitando il raggiungimento di una soluzione ai conflitti:  si rifiuterà sempre di negoziare, non ascoltando e non rispondendo alle domande dell’altro.

Questo fa impazzire l’interlocutore che, destabilizzato, ed allibito dalla paradossalità dei messaggi del partner, inizierà a dubitare di ciò che prova.

Tale strategia comunicativa propone il cosiddetto “messaggio paradossale” o “doppio legame” [Bateson, G.; 1956] (modalità comunicative che nel bambino possono provocare gravi disturbi psicologici e psichiatrici): afferma un contenuto a livello verbale ed esprime l’opposto a livello non verbale, negandone il contenuto. Il partner ne esce destabilizzato, confuso ed il carnefice ha raggiunto il suo scopo: il pieno controllo delle emozioni e dei comportamenti dell’altro. Confondere, scioccare l’interlocutore, gli impedisce di pensare, di comprendere.

Questo aspetto della comunicazione con il carnefice fa si che, nei casi più gravi nei quali il legame è molto difficile da sciogliere, la vittima operi una vera e propria dissociazione interna: “Non può essere davvero così crudele, o così folle… Se no, dovrei lasciarlo! In fondo mi ama… Se sopporto poi si tranquillizza e torna ad essere amorevole… Ma non posso, non riesco a lasciarlo! Forse ha ragione, sono io che lo provoco, sono io  quella sbagliata…”.

Proprio per le difficoltà di riconoscimento della violenza psicologica, sia dall’esterno della relazione, da parte di famigliari ed amici, sia da parte di chi ne subisce gli effetti, è essenziale che il partner sofferente vinca la vergogna e la paura e si riconosca il diritto di essere protetto ed aiutato. Deve riconoscere a se stesso la debolezza che la tossicità di tale relazione gli ha provocato, che ciò che subisce è sbagliato, ed è perseguibile.

Deve abbandonare la speranza di cambiamento, ed il desiderio di vendetta. Deve provare a prendersi cura di se stesso almeno in una minima percentuale rispetto a quanto abbia fatto con il proprio carnefice. Deve elaborare il lutto per la perdita di un’amore mai esistito. Deve nutrirsi di persone che gli vogliono bene, deve raccontare la propria esperienza. Parlare. Ad alta voce, per sentire il riconoscimento, da parte di chi sa ascoltare, della propria persona.

Articolo tratto da www.nienteansia.it

ott 9, 2012 - Psicopatologia    No Comments

La dipendenza affettiva

 

La dipendenza affettiva  è una patologia che coinvolge  quasi esclusivamente le donne: dalla letteratura risulta infatti che il 99% dei soggetti dipendenti affettivi è di sesso femminile (D. Miller,1994) mentre la  fascia di età è variabile e si estende dalle post-adolescenti (età dai 20 ai 27) fino alle donne adulte con figli, sia piccoli che grandi.

Alla luce dei dati che mostrano una quasi assoluta prevalenza del sesso femminile, è difficile non considerare gli aspetti socio-culturali come co-responsabili dello sviluppo di questa patologia.

Nonostante la diversità di età, alcuni specifici elementi accomunano tutte queste donne:

  • si tratta di donne fragili
  • bisognose di conferme
  • con una scarsa autostima
  • terrorizzate dal fantasma dell’abbandono
  • tendenti alla iperresponsabilizzazione
  • provenienti senza eccezione da famiglie problematiche (abusi sessuali, maltrattamenti fisici o psicologici, storia di alcolismo, bulimia o altre dipendenze nei genitori) nelle quali sono cresciute sviluppando un profondo e radicato vissuto di inadeguatezza ed indegnità personale

Anthony Giddens (1992) distingue  tre principali caratteristiche della “love addiction” che la connotano esattamente come una vera e propria forma di dipendenza:

  1. IL PIACERE CONNESSO ALL’AMORE: definito anche ebbrezza , ovvero la sensazione di euforia sperimentata in funzione delle reazioni manifestate dal partner rispetto ai propri comportamenti.
  2. LA TOLLERANZA: anche definita in questo contesto come “dose“, che consiste nel bisogno di aumentare la quantità di tempo da trascorrere in compagnia del partner, riducendo sempre di più il tempo autonomo proprio e dell’altro e i contatti con l’esterno della coppia. Un comportamento che sembra alimentato dalla incapacità di mantenere una “presenza interiorizzata” rassocurante dell’altro, e quindi di rassicurarsi attraverso il pensiero dell’altro nella propria vita (Lerner, 1996). L’assenza della persona da cui si dipende porta pertanto ad uno stato di prostrazione e di disperazione che può essere interrotto solo dalla sua presenza concreta e materiale.
  3. L’INCAPACITÀ DI CONTROLLARE IL PROPRIO COMPORTAMENTO: connessa alla perditadella capacità critica relativa a sé, alla situazione e all’altro. Una riduzione questa che nel lungo termine crea vergogna e rimorso e che in taluni momenti viene sostituita da una temporanea lucidità, cui segue un senso di prostrante sconfitta ed una ricaduta, spesso più profonda che mai, nella dipendenza.

 

CATEGORIE DI DIPENDENTI AFFETTIVI

Dalla prima pubblicazione di “Addiction to love” (Susan Peabody – 1989) non molto è cambiato nel mondo della Dipendenza Affettiva.

Quanto segue, è stato scritto originariamente per l’Associazione Dipendenti Affettivi Anonimi.

  1. Dipendente Affettivo Ossessivo: Gli OLA (Obsessed Love Addicts) non riescono a lasciar andare il partner, neanche se questi è: non disponibile, a livello emotivo o sessuale, impaurito di impegnarsi, incapace di comunicare, non amorevole, distante, abusivo, indagatore e dittatoriale, egocentrico, egoista, dipendente da qualcosa al di fuori della relazione (hobbies, droghe, alcohol, sesso, un’altra persona, il gioco d’azzardo, lo shopping compulsivo, etc)…
  2. Dipendente Affettivo Codipendente: I CLA (Codependent Love Addicts) sono i più ampiamente riconosciuti. Rappresentano un profilo particolarmente comune. Molti di loro soffrono di scarsa autostima ed hanno un modo di pensare, sentire e comportarsi, in certo modo, prevedibile. Ciò significa che da una condizione di insicurezza e bassa autostima cercano disperatamente di rimanere attaccati alla persona da cui sono dipendenti, manifestando un comportamento codipendente. Questo include: essere permissivi, aiutare, prendersi cura del partner, esercitare un controllo passivo – aggressivo ed accettazione di abbandono ed abusi. In generale, i CLA faranno di tutto per “prendersi cura” dei loro partner nella speranza di non essere lasciati o di essere un giorno ricambiati.
  3. Dipendenti dalla Relazione: Gli RA (Relationship Addicts), a differenza degli altri dipendenti affettivi, non sono più innamorati dei loro partners ma sono incapaci di lasciarli andare, di rinunciare. Solitamente sono così infelici che la loro relazione mina la loro salute, il loro spirito e benessere emotivo. Anche nel caso in cui i loro partners li picchino o sappiano di essere in pericolo, essi sono incapaci di rinunciare al rapporto. Hanno il terrore di rimanere soli. Hanno paura del cambiamento. Non vogliono ferire o abbandonare i loro partners. Tutto ciò può essere descritto come: “Ti odio, non lasciarmi”.
  4. Dipendenti Affettivi Narcisisti: Gli NLA (Narcissistic Love Addicts) utilizzano il dominare l’altro, la seduzione ed il trattenere l’altro per controllare i propri partners. A differenza dei codipendenti, che sono disposti a tollerare un notevole disagio, i narcisisti non accondiscendono a nulla che possa interferire con la loro felicità. Sono assorbiti da se stessi e la loro bassa autostima è mascherata dalla loro grandiosità. Inoltre, piuttosto che essere ossessionati dalla relazione, gli NLA appaiono distaccati ed indifferenti. Non sembrano affatto essere dipendenti. Raramente ci si può accorgere che gli NLA siano dipendenti finché il partner non cerca di lasciarli. Allora non saranno più distaccati ed indifferenti. Entreranno in uno stato di panico ed useranno qualsiasi mezzo a loro disposizione per protrarre la relazione, incluso l’uso di violenza. Molti psicologi hanno rifiutato l’idea che i narcisisti possano essere dipendenti affettivi. Può darsi ciò sia avvenuto perché raramente i narcisisti ricercano un trattamento terapeutico. Tuttavia, se mai capiti di poter vedere come molti narcisisti reagiscono all’abbandono, temuto o reale, ci si accorgerà che certamente essi presentano le caratteristiche del dipendente affettivo.
  5. Dipendenti Affettivi Ambivalenti: Gli ALA (Ambivalent Love Addicts) soffrono di un disturbo di personalità evitante. Non hanno particolari problemi a lasciar andare il partner, hanno invece molti problemi ad andare avanti. Bramano disperatamente l’amore ma allo stesso tempo sono terrorizzati dall’intimità. Questa combinazione di tendenze è agonizzante. Gli ALA sono a loro volta divisibili in categorie:  Torchbearers (lett. portatori di una fiamma – innamorati ardenti) sono ALA che sono ossessionati da persone non disponibili. Ciò può avvenire senza che questi compiano alcuna azione (soffrire in silenzio) oppure con la ricerca di contatto con la persona amata. Alcuni Torch Bearers sono più dipendenti di altri. Questo tipo di dipendenza si nutre di fantasie ed illusioni. E’ anche conosciuta come “amore non corrisposto” ed i Sabotatori sono ALA che distruggono le relazioni quando queste cominciano a diventare serie o in qualsiasi momento venga percepita la paura dell’intimità. Ciò può accadere in qualunque momento, prima del primo appuntamento, dopo il primo appuntamento, dopo il rapporto sessuale, dopo che si sia manifestato il timore dell’impegno.
  6. I Seduttori Rifiutanti: (Seductive Withholders) sono degli ALA che ricercano una persona quando desiderano un rapporto sessuale o compagnia. Quando si sentono impauriti o in pericolo cominciano a rifiutare compagnia, sesso, affetto, qualsiasi cosa li renda ansiosi. Se lasciano la relazione sono soltanto Sabotatori. Se invece continuano a ripetere il modello disponibile/non disponibile sono Seduttori Rifiutanti.
  7. I Dipendenti Romantici: sono ALA che dipendono da più partners. A differenza dei dipendenti dal sesso, i quali cercano di evitare del tutto il legame, i Dipendenti romantici si legano ad ognuno dei loro partners, in grado diverso, anche se i legami romantici sono brevi ed avvengono simultaneamente. Con “romantica” intendo una passione sessuale ed una pseudo intimità emozionale. Da notare che, sebbene i Dipendenti romantici si leghino a ciascuno dei propri partners, in vario grado, il loro scopo, insieme alla ricerca dell’intensità del romance e del dramma, è di evitare l’impegno ed il legame su di un piano più profondo con il partner. Spesso i Dipendenti romantici vengono confusi con i Dipendenti dal sesso.

 

SEI UN DIPENDENTE AFFETTIVO?

Di seguito una serie di 40 DOMANDE (tratte dal sito ufficiale “Dipendenza Affettiva”)  per aiutarti a capire se anche tu soffri di dipendenza affettiva: maggiore il numero di “SI” fornito alle domande, maggiore la possibilità che ne sia affetta.

Ti ricordo che si tratta soltanto di domande orientative, ma se le risposte affermative  che hai fornito sono davvero molte (almeno più della metà) considera la possibilità di rivolgerti ad uno specialista per una diagnosi ed un eventuale percorso terapeutico.

 

1.Riguardo alle relazioni affettive sei debole e bisognoso/a.

2.Ti innamori molto facilmente e troppo velocemente.

3.Quando ti innamori non riesci a smettere di fantasticare, neanche quando ti stai occupando di cose importanti, non riesci ad evitarlo.

4.A volte, quando ti senti solo/a e cerchi una relazione, sei disposto/a ad adattarti a cose che non sono esattamente ciò che vuoi o meriti.

5.Quando hai una relazione tendi ad “asfissiare” il tuo/la tua partner.

6.Più di una volta ti sei trovato/a in una relazione con qualcuno che era incapace di impegnarsi seriamente e sei rimasto/a, aspettando e sperando che cambiasse.

7.Una volta che ti sei legato/a a qualcuno, sei incapace di lasciarlo/a o di dimenticarlo.

8.Quando sei attratto da qualcuno, ignori tutti i segni, anche evidenti, che mostrano che quella persona non è adatta a te.

9. Riguardo all’innamoramento ed alla scelta di un partner, l’attrazione iniziale è la cosa più importante per te. Un amore che duri nel tempo non ti attira.

10.Quando sei innamorato/a ti fidi di persone che non sono in realtà degne di fiducia. Al contrario hai grandi difficoltà nel fidarti di tutti gli altri.

11.Quando una relazione finisce, senti che la tua vita è finita e, più di una volta, hai pensato al suicidio a causa di una relazione fallita.

12.Ti accolli una dose di responsabilità di molto maggiore rispetto al partner per far sopravvivere una relazione.

13.L’amore e le relazioni sono l’unica cosa che ti interessa.

14.In alcune delle tue relazioni tu eri il solo innamorato/a dei due.

15.Sei schiacciato/a dal senso di solitudine quando non sei innamorato/a o coinvolto in una relazione.

16.Non sopporti di stare da solo/a. Non sai godere della compagnia di stesso/a.

17.Più di una volta hai cominciato una relazione con la persona sbagliata soltanto per non restare da solo/a.

18.Sei terrorizzato/a all’idea di non trovare qualcuno da amare.

19.Ti senti inadeguato/a se non ti trovi in una relazione.

20.Sei del tutto incapace di dire di no se sei innamorato/a o se il tuo partner minaccia di lasciarti.

21.Cerchi con ogni sforzo di essere o diventare ciò che il tuo partner vuole che tu sia.Faresti qualunque cosa per compiacerlo/a, anche abbandonare te stesso/a (sacrificare ciò a cui tieni, ciò che desideri, i tuoi bisogni e la tua dignità).

22.Quando sei innamorato/a vedi solo ciò che vuoi vedere. Distorci la visione e la percezione della realtà per reprimere l’ansia e nutrire le tue irreali fantasie.

23.Hai una tolleranza molto alta riguardo alla sofferenza in una relazione. Sei disposto/a a sopportare l’abbandono, la depressione, la solitudine, la disonestà, il tradimento, persino l’abuso (mentale o fisico) pur di evitare il dolore dell’ansia da separazione, cioè ciò che provi quando non sei con la persona a cui ti sei legato/a.

24.Più di una volta sei stato ardentemente innamorato di qualcuno ed è stato straziante.

25.Ami l’idillio. Ti è capitato di avere più storie d’amore brevi contemporaneamente, anche quando questo comportava un tradimento.

26.Hai avuto almeno una relazione con una persona che abusava di te, emotivamente o fisicamente.

27.Le tue fantasie su una persona irraggiungibile di cui sei innamorato/a sono più importanti per te rispetto alla possibilità di incontrare una persona disponibile ad una relazione reale.

28.Sei terrorizzato/a dalla paura di essere abbandonato/a. Avverti come un abbandono anche il  più piccolo rifiuto e questo ti fa sentire in un modo terribile.

29.Insegui persone che ti hanno rifiutato e cerchi disperantamente di fare in modo che cambino idea.

30.Quando sei innamorato/a sei eccessivamente possessivo/a o geloso/a.

31.Più di una volta hai trascurato la famiglia e gli amici per una relazione.

32.Sei impulsivo/a in maniera incontrollata quando sei innamorato/a.

33.Senti un irresistibile bisogno di controllare qualcuno di cui sei innamorato/a.

34.Più di una volta hai spiato qualcuno di cui eri innamorato/a.

35.Persegui (o perseguiti) la persona di cui sei innamorato/a anche se è impegnata in un’altra relazione.

36.Se ti ritrovi coinvolto/a in un triangolo (lui , lei , l’altro) cerchi di convincerti che “tutto vale in guerra ed in amore”. Non abbandoni la complicata relazione.

37.Per te l’amore è la cosa più importante del mondo.

38.Anche se non sei una relazione, comunque fantastichi sull’amore, anche su di un vecchio amore o sull’  “uomo (o la donna) che verrà”.

39.Per quanto puoi ricordare, andando indietro con la memoria, la tua mente è stata sempre impegnata con fantasie sull’amore e le persone di cui ti innamoravi.

40.Ti senti impotente e debole quando sei innamorato/a, come se fossi in una specie di trance o sotto l’effetto di un incantesimo.Perdi completamente la capacità di compiere scelte ed azioni lucide.

 

Articolo tratto da www.nienteansia.it

ott 9, 2012 - Psicopatologia    No Comments

Quando il gioco d’azzardo diventa una malattia

 

Il gioco d’azzardo è un’attività di passatempo sociale, il cui obiettivo è far guadagnare soldi a chi punta una certa quantità di danaro.

La storia del gioco d’azzardo è strettamente legata alla storia dell’uomo, tanto che i primi cenni a questa attività si riscontrano addirittura nel 3000-4000 a.C. Nella civiltà egiziana, infatti, era già praticato il gioco dei dadi (il termine “azzardo” deriva dal francese “hasard”, a sua volta termine di origine araba, “az-zahr”, che significa proprio “dadi”). Più a est, in India, Giappone e Cina, si hanno testimonianze di forti scommesse, sia al gioco dei dadi che alle corse dei carri. Non da meno, nella Roma imperiale, personaggi come Nerone, Caligola, Claudio furono certamente accaniti giocatori (oggi probabilmente diremmo “giocatori patologici”). Lo sviluppo sociale del problema del gioco d’azzardo è in parte favorita anche dalle crescenti possibilità di scelta tra una vasta gamma di tipologie di gioco, ormai sempre più legalizzate, che riescono a rispondere alle simpatie dei giocatori con diverse propensioni e con differenti personalità. Così i giocatori d’azzardo vanno dagli amanti della trasgressione da gran salone, come quella dei giochi da Casinò e slot-machine, agli appassionati dei videogiochi che si lasciano conquistare dai sempre più diffusi videopoker, agli appassionati dei giochi d’azzardo popolari, come le lotterie, il gioco di numeri e di schedine, fino al Bingo, la moderna trasformazione del gioco della tombola. Il gioco d’azzardo è anche online, situazione molto più comoda e a portata di mano.

 

Come possiamo definire il gioco d’azzardo?

Possiamo definirlo un vizio quando il giocatore tiene presente la quantità di danaro che ha a sua disposizione per giocare, sa fermarsi quando si rende conto che non ha più soldi da puntare, che ha già investito una certa quantità di danaro possibile e, che andare oltre sarebbe rischioso, quindi sa che non può e valuta le conseguenze. Questo ci fa comprendere che il gioco d’azzardo è un’attività consentita se praticata in modo adeguato. Il gioco d’azzardo diventa una malattia quando le persone puntano una somma di danaro, perdono, continuano ad investire danaro, il guadagno non arriva, continuano a puntare, perdono: la perdita invece di fermarli, li porta ad inseguire in modo accanito e ripetuto la speranza della vincita, fino a quando non si ritrovano al verde. Si chiedono anche prestiti, creando debiti, per continuare a giocare. Esistono giocatori che incassano grosse vincite ma continuano a puntare tutto quello che hanno vinto per aumentare il capitale; può andar male il calcolo e il giocatore si ritrova povero, probabilmente anche con debiti a cui far fronte. Le soluzioni vanno dall’ipoteca sui beni posseduti, fino al suicidio in casi estremi.

Perché queste persone giocano in modo smoderato e arrivano anche a farsi male?

Esistono diversi tipi di giocatori d’azzardo patologici, per cui si va dalla convinzione folle che il guadagno prima o poi arriverà e risolverà i problemi economici, al giocatore che manca di capacità di controllo dell’azione quando nasce l’impulso a giocare, ossia queste persone capiscono le conseguenze del comportamento messo in atto, ma manca la capacità a interromperlo, la volontà di smettere viene meno. Altra ragione che trascina verso il gioco in modo patologico, è lo sviluppo di una vera e propria dipendenza verso il gioco, la persona non può farne a meno, sta male fisicamente e psicologicamente se non gioca. Si può parlare di una vera e propria “dipendenza dal gioco d’azzardo” se è presente il bisogno di aumentare la quantità di gioco, sintomi di astinenza, come ansia, agitazione, irritabilità, comportamenti criminali impulsivi ( aggressioni fisiche per avere soldi) e sintomi di perdita di controllo manifestati attraverso incapacità di smettere di giocare.

Se prevalgono altri sintomi maggiormente legati al deficit nel controllo degli impulsi, il comportamento di gioco patologico impulsivo va ricondotto soprattutto ad un problema in quest’area, senza che si possa necessariamente parlare di dipendenza.

Va anche fatta una differenza tra gioco d’azzardo come conseguenza ad uno stato psicologico in cui il soggetto si trova e il disturbo che non è associato ad altre circostanze di vita.

Come curare il gioco d’azzardo patologico.

La tendenza di una persona malata di gioco d’azzardo è quella di negare o minimizzare il problema, e quando lo riconosce crede erroneamente “che può smettere quando vuole e da solo”, per tale motivo solitamente sono i familiari a chiedere aiuto.
Dopo diversi colloqui che mirano a motivare il soggetto, viene valutato il problema e il tipo di intervento terapeutico adatto alla persona che può comprendere, colloqui individuali, gruppi psicoterapeutici e psico- educazionali, terapia psicofarmacologica, gruppi per i familiari, ma anche il ricovero in comunità quando necessita. La famiglia deve essere sempre aiutata ad imparare a conoscere questa particolare malattia e deve essere coinvolta e sostenuta nella gestione terapeutica del paziente.

 

Articolo tratto da www.nienteansia.it